Due importanti articoli sulle tematiche arcobaleno sono stati pubblicati di recente sul Wall Street Journal, una delle testate più diffuse e accreditate al mondo. Il primo, uscito il 29 ottobre, si intitola Evidence backs the transgender social contagion hypothesis (“L’evidenza supporta l’ipotesi del contagio sociale sulle identità transgender”). L’autore, il biologo evoluzionista Colin Wright, ricorda come la sua carriera accademica fu stroncata quando, nel 2020, si rese colpevole di commentare la notizia che tra il 2008 e il 2018 si è registrato un aumento del 1500% delle diagnosi di “disforia di genere” nella popolazione femminile giovanile in Svezia, con questo post su X: «Due parole: contagio sociale». I dati più recenti sembrano proprio dargli ragione: il numero di giovani che si identificano nell’ombrello transgender, soprattutto tra quelle «identità sociali» che costituiscono la parte più folcloristica dell’arcobaleno abcdefghi+ (come non-binari, demiboy, genderfluid, two-spirit) sembra aver invertito la rotta e essere in diminuzione, l’andamento che ci si aspetterebbe appunto nel caso di un contagio sociale. Wright chiude smontando la presunta scientificità delle “identità di genere” cui spesso si richiamano gli attivisti arcobaleno (confermando quanto da noi più volte argomentato, ad esempio qui): «La presunta evidenza a supporto di una innata, immutabile “identità transgender” è profondamente fallace. Gli studi spesso citati a supporto di una base biologica della “identità di genere” sono generalmente caratterizzati da campioni piccoli e non randomizzati, scarsa replicabilità e mancato controllo di fattori causali concomitanti come l’orientamento sessuale o il trattamento pregresso con ormoni. Quindi, se correttamente interpretati, al più dimostrano una correlazione tra un’espressione di genere atipica e l’omosessualità, non una innata “identità transgender”».
Il secondo intitolato The growing divide in the rainbow coalition (“La divisione che sta crescendo nella coalizione arcobaleno”), uscito il 31 ottobre, documenta come sempre più attivisti omosessuali stiano disconoscendo la “causa transgender” come estranea o perfino deleteria rispetto alle proprie esigenze e rivendicazioni. Ad esempio Jose Arango: a 17 anni in fuga dalla Colombia «conservatrice e bigotta» per emigrare negli USA, inizialmente pensa di aver trovato la libertà e la “comunità” che sta cercando. Diventa presidente del Pride club del proprio campus, vince una borsa di studio da un’associazione arcobaleno, la Point Foundation. «Ma più Arango comprendeva la queer theory» dice l’articolo, «più rifiutava il concetto di “identità di genere”. Per aver espresso idee critiche in merito, nel 2022, fu lasciato dal suo fidanzato e allontanato da gran parte dei suoi amici, che lo accusavano di essere “transfobico”: quella che inizialmente aveva percepito come una comunità inclusiva e accogliente, si trasformò in escludente e ostile. “Hanno un atteggiamento del tipo ‘non essere ingrato’,” spiega Arango, “specialmente con gli omosessuali critici verso l’ideologia gender. Secondo me sono loro ad aver tradito noi – con la pretesa di imporre idee come l’esistenza di lesbiche col pene e uomini gay con la vagina, o che abbia senso per un etero definirsi non-binario”».
Lo spettro del “genere” si aggira per l’Europa.
Articoli come questi in una testata come il WSJ indicano un chiaro cambiamento di rotta culturale in corso negli USA, che però non è seguito in modo parallelo da larghe porzioni di accademia e professionisti del settore: sarà il tempo a dire se durerà o rimarrà una parentesi temporanea, legata alle politiche di Trump nettamente contrarie ai dogmi gender (ultimo esempio, la bocciatura da parte della Corte Suprema del riconoscimento legale delle “identità di genere” nei passaporti). In Europa, viceversa, mentre si osserva una parziale inversione di rotta del settore clinico in sempre più paesi che, a seguito di review dell’evidenza scientifica disponibile (come la Cass review britannica), stanno emanando standard di trattamento ispirati alla cautela e ad approcci alternativi rispetto a quello “affermativo”, la pressione politica delle istituzioni sovranazionali continua imperterrita a spingere l’ideologia gender in ogni ambito della società. Si tratta di un percorso che gli attivisti arcobaleno tipicamente presentano come spontaneo e in perfetta continuità con la storia naturale umana e con i movimenti di rivendicazione omosessuale “dal basso” (ad esempio riscrivendo la storia dei moti di Stonewall in salsa “trans”), ma la realtà è molto diversa: la crescente pervasività dei dogmi gender nelle istituzioni europee è frutto di un lavoro di lobby e infiltrazione perpetrato negli ultimi trent’anni da un numero esiguo di attivisti e finanziatori in sordina, lontano dai riflettori e senza alcun processo di discussione e approvazione democratica da parte delle popolazioni coinvolte.
Questa realtà è esposta in modo semplice e efficace in un eccellente lavoro dell’Athena Forum, coordinamento di esperti e attivisti a livello europeo dedicato a ripristinare un impianto culturale e normativo basato sui sessi biologici anziché sulle “identità di genere”. Il report si chiama Beneath the surface – “Sotto la superficie”, appunto – ed è stato pubblicato a fine settembre. Tutto parte nel 1993, alla seconda Conferenza Internazionale sulle Politiche Transgender che ha avuto luogo a Houston, Texas: in quella occasione un gruppo di lobbysti e attivisti della causa gender e transumanista (tra cui Martine Rothblatt e Susan Stryker) emana la International Bill of Gender Rights (IBGR), “Carta Internazionale dei Diritti di Genere”. L’idea di distinguere i sessi biologici dagli “schemi culturali” ad essi associati – e che le presunte disuguaglianze “sistemiche e strutturali”, oppressive verso le donne e altre minoranze, siano causate dal perpetuarsi di questi schemi – ha una storia precedente, che risale almeno al Secondo sesso di Simone De Beauvoir (“Donne non si nasce, lo si diventa”) e ha radici ancora più lontane: questa visione era già entrata nel dibattito sovranazionale, ad esempio alle Nazioni Unite, mediante l’attivismo femminista. Tuttavia, fino a quel momento il concetto di “genere”, almeno nel lessico istituzionale, riguardava unicamente questi presunti schemi culturali arbitrariamente appioppati ai due sessi, e responsabili del perpetuarsi di questa presunta struttura di potere; e non una caratteristica astratta, metafisica, innata e immutabile (ma al tempo stesso “fluida” e modificabile ad arbitrio), slegata dal sesso biologico.
Senza alcun vincolo materiale.
L’IBGR segna il salto quantico del “genere” in questo senso: lo si vede già nel primo punto, il «diritto di definire la propria identità di genere», così descritto (corsivi nostri qui e nel seguito): «Ciascun essere umano porta dentro di sé un’idea, costantemente in evoluzione, di chi egli sia e di ciò che è capace di realizzare. Questo senso di sé individuale non è determinato dai cromosomi, dai genitali, dal “sesso assegnato alla nascita” o dal proprio ruolo di genere di partenza. Pertanto, l’identità e le possibilità di ciascuno non possono essere limitate da ciò che la società ritiene essere tipicamente maschile o femminile. È un diritto fondamentale di ciascuno poter definire, e ridefinire man mano che prosegue il proprio percorso di vita, la propria “identità di genere”, senza alcun vincolo rispetto ai propri cromosomi, genitali, sesso assegnato alla nascita o ruolo di genere di partenza». Tradotto in un aspetto normativo (in quanto “diritto fondamentale” da garantire), implicherebbe che per legge ciascuno debba poter dire: oggi la mia “identità del genere” è x, e lo Stato deve semplicemente prendere atto e apporre il timbro x sul documento, domani invece magari è y, e lo Stato deve certificare che è y.
Ciò potrebbe restare relativamente innocuo se la caratteristica in questione fosse puramente astratta e non avesse alcuna conseguenza sugli altri; ma quando la si sovrappone al sesso, si crea un monstrum, che consente di andare a modificare in base al puro arbitrio personale un dato empirico e sensibile che ha conseguenze molto concrete. D’altra parte questo è un obiettivo chiave della visione gender e transumanista, di cui i suddetti attivisti (come Stryker e Rothblatt) sono convinti vessilliferi: la negazione totale della realtà naturale e materiale, mediante l’arbitrio, l’autodeterminazione legale e l’uso della tecnologia. Per quanto possa sembrare astruso, questo concetto, dal 1993 ad oggi, è penetrato profondamente nelle istituzioni europee, attraverso il lavoro sottotraccia di queste lobby e delle loro infiltrazioni politiche, lavoro ricostruito e sintetizzato magistralmente nella trentina di pagine del report di Athena Forum (di cui vi suggeriamo la lettura integrale).
Milioni di euro alle lobby arcobaleno.
Il concetto fu inserito nel 2006 nei “Principi di Yogyakarta”, un manifesto per la legislazione sovranazionale in merito a “idiritti” umani legati a “orientamento sessuale e identità di genere” (notare l’artificiale sovrapposizione, per la prima volta in un documento di tale portata, tra due aspetti che hanno poco a spartire tra loro), redatto da 29 esperti di “idiritti” a seguito di un convegno riunitosi appunto a Yogyakarta in Indonesia. L’anno dopo tale documento fu presentato ufficialmente, nel contesto di una delle periodiche riunioni dell’Human Rights Council delle Nazioni Unite. Il principio dell’“identità di genere”, avvinghiato come un parassita a quello dell’“orientamento sessuale” – che ha invece una base empirica, verificabile, e soprattutto aveva già una storia di movimenti dal basso e rivendicazioni, e una rete internazionale di strutture associative – ha in seguito plasmato l’orientamento e le emanazioni di questi enti sovranazionali. Per l’Europa l’assorbimento dei “Principi di Yogyakarta” è avvenuto nel 2009, con il documento “Diritti umani e identità di genere” emesso dal Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, in cui si invitano gli Stati membri a incorporare i “Principi” nelle proprie legislazioni locali.
Da allora il cammino della “identità di genere” nelle istituzioni europee è proseguito indisturbato (si veda l’utile timeline alle pagg. 22-23 del report di Athena), sotto la spinta di organizzazioni e lobby tra cui ILGA, una delle principali associazioni arcobaleno internazionali, il cui ramo europeo è nato nel 1996, e TGEU (Transgender Europe) nata nel 2007. Queste associazioni ricevono ingenti finanziamenti (a scopo “umanitario” naturalmente, per “idiritti”, per il vostro bene insomma) non solo da singoli “filantropi” interessati alla causa e fondazioni private della stessa natura, ma anche milioni di euro di soldi pubblici. Ad esempio l’ILGA europea (che tra i propri obiettivi dichiara esplicitamente ad es. il “riconoscimento legale dell’identità di genere”) ha ricevuto nel solo 2023 quasi sei milioni di euro di contributi attraverso i meccanismi UE, di cui circa la metà direttamente dall’Unione Europea, attraverso l’European Education and Culture Executive Agency (Agenzia Esecutiva Europea per la Cultura e l’Educazione, EACEA) e la Commissione Europea (l’esecutivo dell’UE).