Sta facendo discutere la notizia della tredicenne considerata “trans” cui il tribunale di La Spezia ha validato legalmente la procedura di “cambio di sesso” accogliendo un ricorso presentato dai genitori. La vicenda ripropone dubbi e problemi che abbiamo sviluppato in precedenza in diversi articoli, corredati di fonti scientifiche, per cui ci limiteremo a una sintesi: la “identità di genere” è un concetto recente, che indica in modo nebuloso e variamente definito una presunta essenza o caratteristica innata, metafisica, fissa e immutabile (e però fluida e variabile al tempo stesso) di “mascolinità” o “femminilità” (o anche di altri tipi, ad es. “nonbinarismo”) che in alcuni casi è in sintonia, in altri in distonia rispetto al proprio sesso di nascita e in questi ultimi casi di parla di “identità trans”. È un aspetto non verificabile empiricamente, quindi attiene alla psiche e alla soggettività dell’individuo “trans”, e però tentare di riarmonizzare tale elemento soggettivo e psicologico col corpo, invece del percorso opposto, sarebbe una “terapia di conversione” e quindi una tortura atroce e una violazione di “idiritti” inalienabili. Fino a pochi decenni fa i soggetti di questo tipo erano detti “transessuali” ed erano per la quasi totalità uomini, comunque in numero molto limitato, e la casistica era spesso legata all’autoginefilia, il fetish dell’autopresentazione femminile. Alcuni di questi soggetti mostravano una sofferenza persistente e un desiderio ossessivo di cambiare sesso in senso materiale, per cui nel secolo scorso alcuni pionieri iniziarono a fornire tali trattamenti.
Poiché, però, questi non miglioravano quasi mai il quadro di sofferenza complessivo dei pazienti (anzi il contrario), alcuni studiosi olandesi se ne vennero fuori negli anni ’90 con un’idea geniale: forse il motivo era che interventi chirurgici e ormonali su uomini già maturi non consentivano un risultato finale pienamente “femminile”, perciò si poteva provare a iniziare la “femminilizzazione” prima della pubertà. Nasce così il “protocollo olandese” che pur configurandosi appunto come trattamento sperimentale (esperimento che risulta fallito miseramente), viene ben presto cooptato da lobby di professionisti del settore e attivisti arcobaleno, dando così la stura all’invenzione della categoria degli adolescenti e bambini “trans”, specialmente negli ambienti accademici e di medicina di settore statunitensi, impregnati di attivismo gender, donde poi è stata sdoganata in Europa. Da quando questa idea ha risonanza attraverso i social, si è assistito a un boom di adolescenti che si identificano come “trans”, soprattutto tra le giovani di sesso femminile: fatti che fanno sospettare gli esperti di una dinamica da “contagio sociale”. Ma secondo attivisti e lobbysti arcobaleno (che come ormai ben sappiamo, infiltrano perfino le istituzioni UE), tutto questo contesto non esiste: vi diranno che i “bambini trans” sono esistiti da sempre, in ogni epoca e cultura, che riconoscono la propria “identità di genere” fin dalla primissima infanzia, che se non li si asseconda l’esito sarà automaticamente suicidiario (falsità sbufalata innumerevoli volte) e che ogni tipo di approccio clinico che non sia immediatamente “affermativo” è una “terapia di conversione”, come voler far diventare etero un gay con la forza.
Dove va posto il limite dell’autodeterminazione?
Ed eccoci qua, Italia, dicembre 2025: un tribunale sancisce che una tredicenne deve essere riconosciuta come maschio e assistita nella procedura irreversibile di modificazione del corpo in tal senso, «nella convinzione che abbia maturato una piena consapevolezza circa l’incongruenza tra il suo corpo e il vissuto d’identità come fino ad ora sperimentato», così «da consentirle di concludere, altrettanto consapevolmente un progetto volto a ristabilire irreversibilmente uno stato di armonia tra soma e psiche nella percezione della propria appartenenza sessuale». Questa sentenza sta suscitando molte polemiche e dubbi, com’è ovvio che sia, soprattutto sulla possibilità effettiva, per una ragazzina che non ha neanche completato la pubertà, non ha sperimentato il sesso e non sa cosa siano il desiderio di maternità e l’essere donna, prendere decisioni così delicate e irreversibili. Poniamo l’accento sulla maternità perché è ormai accertato che queste terapie ormonali comportano elevati rischi di infertilità, oltre che di molti altri danni permanenti. È un dubbio di banale buon senso: se una tredicenne non può prestare il proprio consenso neanche per un tatuaggio o un piercing, non può guidare, bere alcool, votare, eccetera, in che senso può decidere in modo “pienamente consapevole” di adottare procedure mediche irreversibili? Ma qui vorremmo porre l’attenzione su un altro punto che finora sembra passato un po’ in secondo piano: il ruolo dei genitori, e della famiglia in generale. In merito al caso di La Spezia, una delle obiezioni che vengono immediatamente poste è che non è stata la ragazzina ad aver dato il consenso in modo autonomo: sono stati i genitori a prendersi tale responsabilità, com’è necessario a quell’età (l’aspetto della “piena consapevolezza” è citato a giustificazione della decisione del tribunale).
Bene: ma su che base i genitori possono prendere una simile decisione? Dato che si tratta di procedure invasive, che comportano rischi elevati di danni irreversibili, dove si pone in questo caso il confine tra “autodeterminazione” e abuso? Difatti, questa vicenda è totalmente in contraddizione con la propaganda che gli stessi arcobaleno fanno sui bambini e adolescenti “trans”, sempre incentrata sull’autodeterminazione, sulla capacità di percepire la propria identità di genere fin dalla primissima infanzia (dai 2 anni di età addirittura), e sul fatto che solo e soltanto il soggetto “trans” può sapere la propria identità di genere. Alcuni esempi (corsivi nostri qui e nel seguito): «Ogni individuo ha un’identità di genere unica e solo lui può definirla. L’identità di genere è ciò che una persona sente interiormente di essere: un maschio, una femmina, un “po’ di entrambi” o nessuno dei due. Tipicamente si sviluppa precocemente nell’infanzia e viene consolidata verso i 3-4 anni». (Società Italiana di Pediatria) «Gli studi scientifici hanno dimostrato che già intorno ai 3-5 anni si ha una chiara consapevolezza del proprio genere». (Arcigay) «L’autodefinizione è già presente nel bambino sin dall’età di 2/3 anni quando dice chiaramente: io sono una bambina/io sono un bambino». (Dr.ssa Toniarti a Intersexioni). «Non è ingegneria aerospaziale, ha spiegato Ehrensaft (Diane, psicologa e docente di pediatria all’Università di San Francisco, una delle più note promotrici dell’“incongruenza di genere” infantile), basta ascoltare davvero i bambini. “Il bambino dirà: lasciatemi mettere i vestiti che voglio io, chiamatemi ‘lei’, esprimerà la propria volontà molto chiaramente”».

Il ruolo di genitori e figure di riferimento nei casi di “bambini trans”.
Tralasciando che un bambino può con la stessa serietà e chiara volontà esprimere di essere un pirata, o un esploratore venuto da un’altra dimensione, e non lo asseconderemmo certo se non per gioco: eppure questo è lo scenario propalato dagli ideologi arcobaleno, ed è già abbastanza grottesco. Ma uno degli elementi più inquietanti della vicenda in esame è che, stando a quanto emerso ai media, saremmo di fronte a uno scenario totalmente differente: «Paradossalmente, non è stato ‘Giulio’ a intuire per primo cosa stesse succedendo. È stata la sua sorella gemella, quindi anche lei oggi un’adolescente 13enne, a notare quei tratti mascolini che, giorno dopo giorno, si facevano più vistosi, s’imponevano e diventavano normalità nel loro quotidiano. Lei l’ha capito, poi l’hanno capito anche mamma e papà, e ‘Giulio’ è diventato un bambino». (Il Giornale, 22/12) «La prima in famiglia a comprendere, e ad accogliere, è stata la sorella gemella. Che sin dall’infanzia ha visto crescere suo fratello. Giocare con le macchinine, scegliere i jeans da indossare e il taglio di capelli a spazzola. Lo ha visto diventare sé stesso e sviluppare tratti di mascolinità, al di là della sua identità di genere anagrafica». (La Nazione) Quindi questa ragazzina non aveva espresso alcun segno spontaneo e netto della propria “identità di genere”, finché la sorella ha “notato” che giocava con le macchinine e indossava i jeans… Niente identità percepita precocemente dai 2-3 anni di età? Niente dire “chiaramente ‘io sono una bambina’”? In questo caso ci dimentichiamo che ognuno ha una propria identità di genere e “solo lui” può definirla?
Immaginate una bambina e il suo rapporto speciale, di fiducia totale e quasi di fusione, con la propria sorella gemella. Immaginate che la sorella cominci, magari dopo aver visto e letto cose del genere sui social, a farsi l’idea che questa bambina ha in realtà una “identità di genere” maschile dato che preferisce giocare con le macchinine e indossare jeans. Immaginate questa storia prendere corpo e crescere tra le due, come sempre accade tra bambini, tra coppie di fratelli o sorelle che costruiscono il proprio immaginario “speciale” condiviso. Immaginate i genitori prendere sul serio questa storia, un po’ perché preoccupati per la salute della figlia, un po’ perché istigati dalle istituzioni sanitarie che dovrebbero tutelare la salute e il benessere presente e futuro di questi bambini (in questo caso la struttura dedicata alla identità di genere nei minori del Careggi, al centro di un’ispezione e un provvedimento ministeriale proprio in merito alla gestione di questi pazienti). Non è un caso se il fenomeno dei bambini precocemente presentati come “trans” dai genitori è spesso associata da alcuni esperti critici verso la “identità di genere” minorile a quella della “sindrome di Münchhausen per procura”, in cui un bambino è indotto dalla madre o da qualche altra figura di riferimento a credere di essere affetto da una condizione patologica, e sia per la fiducia naturale che il bambino ripone in quella figura, sia per non deluderla o per continuare a meritare quell’amore e quell’attenzione che teme gli verrà tolto se non starà al gioco, introietta quella condizione nel proprio comportamento quotidiano e nella propria personalità in formazione. E si può immaginare che non sia facile, e che anzi costituisca un peso a tratti insopportabile (alcuni esempi lampanti sono emersi dal documentario Transhood, qui sottolineati dal commentatore Matt Walsh). In tale rapporto disfunzionale, chi induce la falsa credenza nel bambino ne riceve validazione, senso di controllo e potere, un’accresciuta empatia e/o attenzione da parte delle proprie cerchie sociali. Il bambino riceve solo un danno permanente, una ferita inferta da quelle figure di riferimento e da quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo.