In Italia il fenomeno delle false accuse è una vera caccia all’uomo, non roba da teatro o romanzi, ma cronaca quotidiana. Nell’epoca delle denunce facili e dell’automatismo cautelare, basta una parola – stalking, maltrattamenti, abuso – per condannare un uomo all’inferno, senza nemmeno passare dal via. A fare da giudice spesso non è il tribunale, ma la macchina infernale della prevenzione, sospinta dal vento femminista e alimentata da narrazioni tossiche che vedono ogni uomo come un presunto colpevole e ogni donna come vittima a prescindere.
Lo schema si ripete ossessivamente, senza mai una parola di dubbio. Per le false accuse c’è chi perde il lavoro da agente di sicurezza, dopo una denuncia per stalking archiviata, senza che la revoca del porto d’armi venga ritirata: l’unico danno reale resta quello inflitto all’uomo, il tutto per colpa di informazioni obsolete e prassi isteriche da Codice Rosso. O chi, come il poliziotto seppellito sotto accuse per stalking, subisce il divieto di residenza e una condanna in primo grado, salvo essere poi assolto con formula piena grazie a fatti completamente smontati in appello: anni di vita bruciati, senza nessuna responsabilità accertata (ribaltone giudiziario incluso).
Quando le accuse sono dogma e la verità un fastidio
Ci si scandalizza ancora delle denunce di comodo basate su fale accuse? Una rassegna dei casi della settimana scorsa basta e avanza a svelare la farsa. Il copione è collaudato: denuncia, misura cautelare automatica, magari una sfilza di divieti di avvicinamento e domiciliari inflitti sulla sola base di racconti privi di riscontro – come nel caso clamoroso del 30enne di Montesarchio, che si è visto privare della libertà e del rapporto con la compagna, solo per poi essere assolto e rispedito in libertà senza tante scuse (altro giro, altra assoluzione). Nel frattempo, le “vittime” chiedono misure draconiane e poi vengono avvistate allegramente a passeggio, a cena o persino in auto con il presunto aguzzino, come nel caso grottesco in cui è la stessa donna a disattivare il dispositivo di localizzazione per non farsi scoprire dall’autorità (tecnologia sì, ma contro chi?).
E se il palcoscenico si sposta sulle accuse di violenza sessuale, il copione è ancora più surreale. Imprenditori che impiegano sette anni a dimostrare la totale infondatezza di quanto loro imputato, ex fidanzate che – smascherate dalle analisi genetiche – si inventano stupri per raggranellare qualche mensilità in più, nipoti che fanno scattare il circo mediatico accusando zii innocenti: lo scenario va dal tragico al farsesco. Tutto invariabilmente tradotto in nuove cifre allarmistiche sulla “violenza di genere”, che ben pochi hanno interesse a depurare dai numeri fasulli delle denunce archiviate. Già, perché i casi di accuse archiviate e le assoluzioni rimangono pur sempre nel calderone statistico delle emergenze sociali, alimentando una narrazione tossica e irriflessiva che mette all’indice milioni di uomini. Chi osa domandare sulle reali motivazioni o la genuinità delle accuse? Nessuno. L’accusa vale un dogma, la verità è solo un fastidio. Invitiamo i lettori a consultare gli approfondimenti sull’Osservatorio Statistico e gli altri articoli de La Fionda.com, per accorgersi di quante “verità legalizzate” subiscano ogni giorno gli uomini. Pensare che sia giusto e progressista significa nascondere la testa sotto la sabbia, lasciando milioni di inocenti sbranati da un sistema assetato di capri espiatori.