Non vorrei essere smentito come una Selvaggia Lucarelli qualsiasi, ma: quanti bambini “transgender” o “non binari” avete conosciuto nella vostra infanzia? Ecco, appunto: nemmeno io. Ma siccome non bastavano i corsi universitari di teorie di genere e queer, qualche intelligentone ha avuto la bella idea di inaugurare dei “laboratori per bambin* trans e gender creative” (e se qualcuno pensa che l’asterisco sia mio spero che gli scoppi una gomma in curva). Meno male che la mia infanzia li ha scansati e sono diventato gay con l’aiuto delle mie sole forze. Qualche mese fa vi avevo parlato, per l’appunto, di un tizio che insegnava “teorie di genere e queer” all’università di Sassari: ho scoperto che l’Ateneo sassarese, che tutto orgoglioso aveva lanciato questo improbabile corso, precipita nelle classifiche della competitività. Che strano, chissà com’è possibile, e io che pensavo che una roba del genere fosse un’eccellenza accademica, un fiore all’occhiello che alza l’asticella dell’offerta formativa.
L’università di Torino, rispetto alla quale Sassari non voleva assolutamente essere da meno, ha già da tempo il suo tizio che insegna fuffa, nello specifico “storia dell’omosessualità”. Chissà se in questa storia, che sicuramente non sarà affatto un’apologia di noialtri gay notoriamente tutti angeli e santi, saranno incluse anche cose meno edificanti come Rodolfo Fiesoli e lo scandalo del Forteto. Il tizio, formatosi negli Stati Uniti e residente in Canada, sorriso tipo “Hide the pain Harold”, è preoccupatissimo perché Valditara vuole condizionare l’educazione all’affettività nelle scuole al consenso dei genitori. Orrore, i genitori, ma che cazzo vogliono questi fastidiosi estranei che non apprezzano lo straordinario contributo pedagogico delle drag queen chiamate a fare lezioni di inclusività. Il prof giramondo ammonisce allarmato che “vogliono impedire alle persone lgbt di svilupparsi, di conoscersi e capirsi”: notoriamente le “persone lgbt”, oggigiorno, non sanno proprio da dove iniziare a “conoscersi e capirsi”. E naturalmente non poteva mancare il pater-ave-gloria della “mascolinità tossica” e della “piaga della violenza sulle donne, omofoba e transfobica”. Per finire con il disvelamento del piano politico delle destre mondiali, che prevede “l’eterosessualità obbligatoria, il ritorno al patriarcato, la sottomissione delle donne, il dominio della razza bianca”. E io che pensavo che i complottisti fossero quelli della terra piatta e quelle “del gender pay gap”.
Disforia o incongruenza?
Ci sarebbe da chiedersi perché, se dici a un uomo-bianco-etero-cis-ecc. che oltre ad essere il male del mondo è anche un mitomane, questa è una “critica costruttiva”, ma se lo dici a uno che “si percepisce” donna allora sei “transfobico”: dev’essere quella solita schizofrenia che ci fa essere inclusivi solo con quelli che ci piacciono. Non si capisce poi cosa cazzo c’entri la “transfobia”, visto che non si parla affatto di “persone trans” ma semmai di “persone trav”: peccato che ai travestiti non venga il ciclo, altrimenti, la scemenza durerebbe tre giorni al mese e non tre giorni ogni tre giorni. E a proposito di trans, negli ultimi dieci anni, in Sardegna, si è passati da 5 a 15 casi di transizione di genere. Nell’articolo non si parla di età, ma dal contesto si deduce che si tratta praticamente solo di adolescenti: come tutti sappiamo, a quell’età hai le idee chiarissime, mica dici, pensi e fai una valanga di cazzate. “Meglio una figlia transgender che una figlia morta” (ovvero suicida), si sentono dire con tono fatalista da qualche “specialista” i genitori di alcuni di questi saggissimi ragazzi da cui abbiamo tanto da imparare.
Già il fenomeno dovrebbe far scattare un campanello d’allarme su come si stia plagiando la psiche degli adolescenti, a maggior ragione se nel calderone delle “persone trans” ci si schiaffano a sproposito anche quelli che “trans” non sono, ovvero i semplici “travestiti”: quelli che si “percepiscono” donne, quelli che si definiscono “non binari”, quelli che si autodiagnosticano la “disforia di genere”. Che per chi abbia ancora un neurone funzionante sono sullo stesso livello di scemenza di quelli che cercano i propri sintomi su Google, o come quelle che scrivevano alla posta di “Cioè” chiedendo se era possibile rimanere incinta bevendo dallo stesso bicchiere del fidanzato. E sempre a Sassari, (sì, gran pienone a questo giro: in realtà ho un “amico agente all’Avana” in Sardegna a cui piace farmi incazzare e che mi rimpinza di articoli della stampa locale, non rivelerò la sua geolocalizzazione perché i fanatici sono pericolosi), due attiviste hanno fondato un’associazione “Trans support”, ovviamente in quell’inglese obbligatorio di chi a scuola invece di imparare l’italiano ha imparato altre cose utilissime. Dopo aver puntualizzato che non si dice “disforia” ma “incongruenza” di genere (la milionesima battaglia lessicale, davvero necessaria e interessante, la concretezza sempre avanti tutto), rivelano che le persone che si rivolgono a loro “sono per lo più giovani, minorenni, la persona più piccola ha 14 anni”. Cioè, un girino di 14 anni ti viene a dire che si percepisce uno scoiattolo, e a te adulto sembra una cosa normale.
Di Basaglia ce n’è stato uno solo.
Ovviamente ciò non avviene perché i ragazzi vengono lasciati in balia di quelle micidiali macchinette che sono gli smartphone, alla mercé di cialtroni imbonitori social, continuamente martellati da un indottrinamento che è arrivato persino nelle aule universitarie, figuriamoci. I nostri figli (anzi vostri, se volevo avere la rottura di coglioni dei figli nascevo etero o Nichi Vendola) non sono rincoglioniti dalle pubblicità, da Tiktok, da quella piaga che sono i personaggi di spettacolo che fanno la ruota come i pavoni, no, ma quando mai: è che gli adolescenti stanno “prendendo coscienza”. Anche se, ovviamente, “c’è ancora tanta strada da fare”. E non ci sono più le mezze stagioni. Ora, va bene che ognuno rimedia alle proprie insicurezze come può, però c’è un limite. Non è che le “persone non binarie” siano come Plutone, che esisteva ma non lo sapevamo prima del 1930. Le “persone non binarie” sono come gli smartphone, che prima del 2006 (intendo quelli con il touch screen, sapientone attivista che stai leggendo questo articolo e aspetti qualsiasi appiglio per dire che l’ignorante sono io) non sapevamo che esistessero perché non esistevano, nessuno li aveva ancora inventati.
“Pochissima gente avrebbe un dio se tanta gente non avesse fatto di tutto per dargliene uno”: lo scriveva Jean Meslier in Il Testamento. E allora mi viene in mente Franco Basaglia: se siete dei Gen Z che non sanno nulla di ciò che è successo prima della pandemia, sappiate che Basaglia era quello psichiatra a cui si deve la chiusura dei manicomi, il che avrebbe eliminato (o perlomeno costretto a evolversi) lo stesso posto di lavoro suo e dei suoi collaboratori. “Ci vuole molto coraggio”, diceva Basaglia, “a immaginare un mondo nel quale il proprio mestiere non serva più, e farlo per il bene degli altri”. Certo, col senno del poi, forse, la cosa sarebbe da riconsiderare, visto quanti matti ci sono in giro a cianciare di non binarismo, ma vabbè. Ve li immaginate gli attivisti e i prof-di-fuffa che dicono “abbiamo raggiunto il nostro scopo, non siamo più necessari, ripieghiamo le bandiere e andiamo a casa in pace, facciamoci una vita”? Col cavolo: hanno inventato una necessità, ci si sono ficcati dentro e chi li smuove più. Evidentemente questi non sono Basaglia: il loro manicomio non chiuderà mai e anzi, sarà sempre più affollato. Venghino, signor*, venghino.