Su X (ex Twitter) ci siamo imbattuti nella breve intervista che potete vedere qui di seguito:
È un’intervista che dice molto, quasi tutto. Abbiamo una giovane e carina ragazza italiana che si trasferisce in Russia e lì si vede costretta a curare di più il proprio aspetto, la propria estetica e il proprio modo di vestire perché, così dice, in Italia non sentiva «tutta quella competizione che invece hai quando vieni qui». La competizione c’è, dice, perché le donne russe sono più “agghindate”, termine abbastanza improprio con cui la giovane vuole forse dire che nei paesi dell’est ex sovietici le donne si smaltano le unghie, si truccano e si vestono bene si anche solo per portare la spazzatura o per far passeggiare il cane. Cioè non è che sono “agghindate”, semplicemente tengono alla cura di sé, sanno che la loro caratteristica precipua è la bellezza (e le donne dell’est ne hanno a tonnellate) e dunque stanno attente a curarla come merita. Diremmo quasi “come natura impone”. Ma non è tutto: facendo il confronto, la giovane dice, con un buon esercizio di politically correct, che in Italia le donne sono più “tranquille” e si vestono più “casual”.
Ora il nostro compito è, come sempre, grattare via la patina del politicamente corretto, prendere l’intervista e dire le cose come stanno, andando alla radice della questione. In occidente, Italia compresa, predomina un approccio dettato dai dogmi femministi, secondo i quali la bellezza e la cura di sé, essendo apprezzati dagli uomini, sono cose brutte, sbagliate. Curare il proprio aspetto è una colpa, significa essere “ancelle del patriarcato”. Ed ecco che allora in giro si vedono moltissime donne non “tranquille” o “casual”, ma semplicemente sciatte. Volgarmente sciatte. Cioè conciate in modo scientificamente concepito per svilire e mortificare qualunque minimo tratto di fascino femminile esse possano vantarsi di avere. Sotto gli abiti a sacco, le calzature anti-sesso, i capelli non lavati, magliette e maglioni di lana in regola con la normativa dei centri sociali, piercing e grugni frustrati, talvolta si riescono a indovinare forme armoniche, una bellezza possibile, portata in giro però con tutto ciò che serve per deturparla, umiliarla, mortificarla, annullarla. Perché guai a piacere agli uomini, guai ad esibire ciò che è intrinseco all’essere donna, ossia l’essere stupendamente e orgogliosamente femmina. Tutto ciò darebbe un’identità a sé stante a chi appartiene al sesso femminile, e ciò renderebbe inutile e fastidiosa l’identità precotta fornita dal femminismo. Guai, dunque!
L’intervista che mette a nudo il veleno femminista.
Cosa può accadere allora quando una giovane nata e cresciuta in questo milieu marcio e contro-naturale si trasferisce laddove le cose sono rimaste quanto più possibile conformi alla natura umana? Un disastro, come si sente dall’intervista. Già che un’italiana a malapena carina possa pensare di competere con la più brutta delle russe (o delle ucraine, delle slovacche, delle polacche) è qualcosa che fa sorridere, ma ancor più la cosa si tinge di comico pensando al contesto da cui la giovane proviene. Da italiana, porella, si trova costretta a farsi torturare dall’estetista e a vestirsi decentemente, in un paese dove quando vai al supermercato ti pare di essere talvolta a una sfilata d’alta moda e talaltra dentro un porno d’alta classe, dove l’essere donna è un valore di per sé, a partire dalla nascita, senza alcun innesto culturale esterno. E anche senza alcun innesto politico: il sovietismo in questa cosa non c’entra nulla. I popoli dell’est hanno mantenuto salda la presa, anche attraverso i più diversi regimi politici, sulla conformità dell’essere quotidiano al proprio genere d’appartenenza. Chiedete tanto a una babushka quanto a una giovane di San Pietroburgo, Kiev, Bratislava, Sofia o Varsavia, cos’è una donna e cos’è un uomo: vi risponderanno con convinzioni rocciose e disarmanti, dicendo semplicemente la verità.
E la verità è che ci sono popoli che si sono arresi incondizionatamente a tutto ciò che si presentava ad essi sotto le vesti del “progresso”, bevendosi la frottola che fosse intrinsecamente buono, anche quando comportava o imponeva un allontanamento, un superamento o la distruzione di ciò che è più connesso alla natura umana. E ci sono popoli che invece hanno opposto una resistenza che ha fatto da filtro: delle proposte legate al progresso si tiene ciò che oggettivamente migliora la vita degli individui e delle società (comunque vigilando severamente), ma per il resto si conserva gelosamente ciò che è buono, intendendo come tale ciò che, per studi scientifici ma anche solo per semplice buon senso ed evidenza empirica, è coerente con la natura e l’evoluzione. Ci sono due visioni contrastanti che si contrappongono, in questa intervista, e la domanda conclusiva è una sola: chi è più felice, risolta e piena di vita, la donna dell’est, che è donna e fa la donna in ogni occasione, trovando in questo la propria identità e significanza, o la donna occidentale (italiana) che riesce a concepirsi donna solo se fa l’uomo o solo se fa sì di essere la meno attrattiva possibile per l’uomo? La risposta è più che ovvia e mostra una volta di più tutta la perniciosa tossicità dell’ideologia femminista, che dal confronto con realtà socio-culturali conservative esce per ciò che è: semplice stupidità che, connessa a interessi e potere e distillata in una ideologia codificata e radicata, diventa veleno e strumento di infelicità, per uomini e donne.