I dati dell’ISTAT su cui da anni la narrazione tossica femminista si appoggia per imporsi ad ogni livello cominciavano a essere vecchiotti. La prima indagine campionaria risale al 2006, poi l’ISTAT recupera fondi per rifarla praticamente uguale nel 2014 e da lì emergono i meme che sentiamo ripetere ormai da anni: 3 milioni di donne vittime di stalking, 6 milioni di stupro, millemila di violenza psicologica e così via. Non è che ci si possa girare intorno, va detto chiaro: tutta fuffa. Questo libro spiega nei dettagli e in modo comprensibile quali trucchi (domande suggestive, erogazione telefonica, uso di strumenti statistici ad hoc e tanto altro) la dirigenza femminista dell’ISTAT avesse utilizzato in allora per ottenere dati del genere, frutto di una indagine campionaria e non di una rilevazione numerica reale. Cioè intervisto x persone e poi estendo i risultati a tutta la popolazione, questa è un’indagine campionaria, che di per sé ha valore solo se suffragata da dati reali. Come racconta il libro citato, nella realtà non c’è nessun riscontro reale di quei “milioni di donne vittime”, gli uomini condannati per violenza sono in media 3.000 (tremila!) ogni anno e, fatto buffo ed emblematico, proprio nel 2014 la Fundamental Rights Agency dell’Unione Europea fece un’uguale rilevazione, però fatta bene: ne uscì che l’Italia era fanalino di coda per le violenze maschili contro le donne. Non è un caso che quella porcheria dell’ISTAT non sia mai stata citata a nessun livello internazionale, nemmeno da UN Women, pur abituata di suo a diffondere brutture statistiche da record olimpionico.
Di fatto il 2014 cominciava a essere lontanuccio, i dati ampiamente messi in discussione, la narrazione femminista un bel po’ indebolita. E allora, non si sa come in questi tempi di magra, l’ISTAT trova i fondi per fare un’altra indagine campionaria, i cui esiti cominciano a essere pubblicati, guarda caso attorno al 25 novembre. Il tono non è cambiato: “una donna italiana su tre vittima di violenza fisica o sessuale”, titola l’ANSA. I numeri preannunciati sono gli stessi del 2006 e del 2014: 6 milioni di donne tra i 16 e i 75 anni hanno subito violenze fisiche o sessuali per mano maschile. Concetto centrale che a breve verrà fatto passare: è stato fatto molto, ma niente è cambiato, bisogna fare di più. Tradotto: più leggi repressive ed eversive del sistema giudiziario, come la spaventosa mostruosità del “consenso libero e attuale” o quella della legge sul “femminicidio”, ma soprattutto più fondi per le lobby che circuitano attorno a quella che da anni chiamiamo “industria dell’antiviolenza”. Un agglomerato di lobby fatta da centri antiviolenza, case rifugio, centri per uomini maltrattanti, giudici (onorari e non) ideologizzati, forze dell’ordine indottrinate, associazioni e consorterie varie, che rappresentano clientele ricche e utili per politiche (e politici) che su queste tematiche costruiscono la loro elezione al Parlamento, ai consigli regionali o comunali, quando non a ruoli di anche maggiore responsabilità.
Aspettiamo l’ISTAT al varco.
I numeri che già trapelano sono un antipasto del report che si annuncia in uscita nel 2026 e che sarà intitolato “Sicurezza delle donne”. Interessante ciò che si dice sulla metodologia che, «attraverso interviste rivolte a un campione rappresentativo di donne, permette di conoscere l’ammontare delle vittime della violenza maschile, includendo anche le esperienze subite e mai denunciate alle autorità (“sommerso della violenza”)». Dunque ci risiamo: interviste, probabilmente telefoniche, con la pretesa che l’intervistata ricordi tutti gli eventi della propria vita e li etichetti come violenza, compreso magari quando il fidanzato le disse che la nuova pettinatura non gli piaceva, per poi ammettere che no, non aveva denunciato. Esageriamo? Le rilevazioni del 2006 e del 2014 avevano domande del genere. Solo che qui hanno aggiunto la domanda sulla denuncia, per poter così quantificare il “sommerso”, quel grande mito che sorregge la narrazione criminalizzante dell’uomo e vittimizzante della donna. Parliamoci chiaro: tra centri antiviolenza, case rifugio, procure con magistrati specializzati in violenza “di genere”, così come interi reparti di polizia e carabinieri, redditi di libertà e vari altri vantaggi, se una donna vittima di violenza in Italia non denuncia o è rimbambita o disinformata. Ma visto che le pubblicità del 1522 ormai te le ritrovi anche sulla carta igienica, quest’ultima ipotesi è remota.
Dunque tutto lascia presagire che anche a questa tornata l’ISTAT, come fa da vent’anni ormai, darà in pasto alle lobby dell’industria dell’antiviolenza i dati farlocchi che ad esse servono per campare ancora un’altra decina d’anni. Il tutto finanziato con soldi pubblici, ça va sans dire. Da un lato a noi dispiace che questa storiaccia vada avanti, che un importante organo strumentale dello Stato come l’ISTAT si pieghi e si asservisca a un’ideologia politica tossica e pericolosissima. Dall’altro però, a differenza dei due report precedenti, siamo contenti perché stavolta ci siamo noi. E noi non vediamo l’ora di leggere il set di domande somministrate alle intervistate, la modalità di somministrazione e di calcolo per la proiezione su scala nazionale e tutto il resto. Purtroppo per loro, essendo l’ISTAT un ente pubblico, dovrà essere tutto trasparente. E noi saremo lì, le attenderemo al varco, pronti a fare le pulci e a dimostrare che no, i numeri non vanno torturati per fargli dire ciò che si vuole. Specie se di mezzo c’è un’accusa tanto infamante quanto fasulla rivolta a una metà della popolazione.