La Fionda

L’ONU e la dilagante disonestà sulla “violenza online”

L’ONU a guida ideologica femminista ora si occupa di violenza online. Il tutto proprio mentre Samantha Wall viene condannata a 28 mesi di prigione per la sua «incessante raffica di abusi volti a massimizzare la paura e l’angoscia della sua vittima». Il suo obiettivo era l’imprenditore britannico Brad Burton, che ha rivelato che le «accuse inventate da Wall hanno macchiato il mio nome, eroso la fiducia e devastato il senso di sicurezza della mia famiglia». Il fatto che spesso le donne siano le autrici di abusi online è ampiamente documentato: il Women’s Media Center ha analizzato oltre 100.000 post di molestie online in tutto il mondo, concludendo che nel 52% dei casi le autrici erano donne; uno studio di Demos ha esaminato 200.000 tweet che utilizzavano le parole “troia” o “puttana”, e ha scoperto che la metà di questi tweet erano stati inviati da donne.

Ma solo poche settimane dopo l’annuncio della condanna di Samantha Wall, l’ONU ha lanciato una campagna su Twitter volta a insabbiare la verità e a stereotipare gli uomini come abusatori. Il 25 novembre ha quindi lanciato la sua campagna “Violenza online”. E guarda un po’, la campagna ovviamente travisa in modo spudorato la verità ignorando e omettendo il fatto che gli uomini hanno la stessa probabilità, o addirittura più probabilità delle donne, di essere vittime di molestie online. Ad esempio, Pew Research, in un sondaggio del 2021, ha rilevato che il 43% degli uomini e il 38% delle donne hanno dichiarato di aver subito molestie online. L’azienda di sicurezza digitale Norton ha registrato che il 54% degli uomini e il 50% delle donne hanno dichiarato di essere stati vittime di qualche forma di abuso o molestia online. La ricercatrice Anastasia Powell, dopo un sondaggio condotto su 3.000 adulti in Australia, ha concluso che «in generale, uomini e donne avevano la stessa probabilità di aver subito molestie e abusi digitali».

ONU, sede, New York, Nazioni Unite
La sede dell’ONU a New York

Fare pulizia all’ONU.

La campagna disonesta è coordinata da UN Women ed è promossa da una vasta gamma di agenzie e programmi dell’ONU: Tratta di esseri umani e migrazioni; Sviluppo delle Nazioni Unite; Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente; Obiettivi globali delle Nazioni Unite; Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine; Volontari delle Nazioni Unite; UN Women Africa; Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA); UNICEF; Nazioni Unite Ginevra; e Programma alimentare mondiale. Tutti insieme questi soggetti definiscono la “violenza digitale” in modo così ampio da arrivare a intaccare la libertà di parola: «L’abuso digitale o la violenza digitale si riferisce a qualsiasi atto commesso, assistito, aggravato o amplificato dall’uso di tecnologie dell’informazione e della comunicazione o altri strumenti digitali, che provoca o è probabile che provochi danni fisici, sessuali, psicologici, sociali, politici o economici, o violazioni dei diritti e delle libertà».

La campagna è così perversa nella sua disonestà che le persone hanno iniziato a parlarne apertamente. Il ricercatore James L. Nuzzo ha denunciato l’iniziativa su Twitter e in diversi articoli, definendola come palese “propaganda”, e la giornalista Lisa Britton ha criticato l’iniziativa dell’ONU rivelando come sia stata spesso bersaglio dell’ira femminile: «Ogni giorno subisco molestie online da parte delle donne, alcune mi dicono persino di scomparire perché voglio equità per tutti». In risposta a progetti simili e sconsiderati presso le Nazioni Unite, l’ambasciatore statunitense Mike Waltz ha recentemente chiesto un taglio del 15% al ​​bilancio e il licenziamento di 2.600 burocrati presso la sede centrale delle Nazioni Unite a New York City. «Faremo pulizia», ​​ha promesso Waltz. Speriamo che non siano solo parole.



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