Chiedo scusa ai miei venticinque lettori e ventisei detrattori se mi sono eclissato: mi sono preso una pausa e poltrire mi è piaciuto un po’ troppo. Succederà di nuovo: niente di personale. D’altronde, ditemi dov’è che trovate uno talmente figo da saper tacere quando non ha niente di interessante da dire come il sottoscritto.
La sera del 25 novembre, quella piaga annuale che nella classifica delle piaghe annuali è inferiore soltanto a Halloween e al Natale (no, scusate: al Natale no), passavo per la piazza principale e ho notato lì un assembramento minuscolo, persino in proporzione alle dimensioni del paesone in cui vivo, con più bandiere che persone. Era un tale goffo mischione di rappresentanti di dolenti minoranze che, non fosse stato per l’infausta data, uno non avrebbe capito il motivo del ritrovo di tanta eterogeneità: cartellone “hermana yo te creo”, bandiera trans, bandiera asexual, bandiera palestinese, bandiera di Black Lives Matter, bandiera di Rifondazione Comunista (e poi cosa, rifondazione della Triplice Intesa?). Insomma, il cucuzzaro “woke” intersezionalista al completo. Non ho visto quelle della nazionale di calcio del Lesotho e quella della Coldiretti, ma non giurerei sulla loro assenza. La colonna sonora delle immancabili Rettore, Pavone e Carrà, notoriamente latrici di canzoni ad alto tasso di politicizzazione, e la non disinvoltissima megafonatrice dalla voce stridula e con l’aggravante di avere probabilmente superato da un pezzo i quindici anni di età (sì vabbè, se domani non torni distruggiamo tutto, non ti preoccupare, ciao) non aiutavano granché.
Comunque sia, mentre mi facevo largo attraverso quest’oceano di folla, mi viene incontro una forma di vita con quel tipico aspetto da tetra becchina che hanno gli astanti di queste sale di pompe funebri all’aperto (grugno da imbianchina austriaca che qualcuno deve aver convinto di essere speciale, occhiali da femminista, mani ancora piene di volantini che evidentemente non erano andati proprio a ruba, insomma una che inseguiresti con la croce e l’aglio) e prova ad affibbiarmi un volantino, probabilmente interpretando il mio sguardo non esattamente estasiato dal mesto quanto zotico spettacolo intersezionalista come sicuro indizio di eterosessualità ostile bisognosa di rieducazione. Cosa mai pretenderà di saperne questo di omofobia e di oppressione, avrà pensato, minimo è un fan di Vannacci, adesso gli faccio vedere iA. Già per il sospetto di vannaccismo ti darei il 41 bis, ma “eterosessuale” A ME?! Povera stolta. Ti piacerebbe. Lo so che ora direte “devi sempre farti riconoscere”, ma lascio alla vostra immaginazione la breve conversazione che è seguita, non esattamente su toni signorili; non dev’essere stato facile per la povera creatura dover ridimensionare la certezza dell’infallibilità del suo giudizio, la sua mitomania nel credere che darmi dell’“incel”, qualunque cosa significhi, mi avrebbe ricondotto tremante e rammaricato nei binari del vivere civile. Possibile che stavolta non abbia trovato dell’ottusità di cui approfittare, roba dell’altro mondo, funziona sempre, cosa sarà mai andato storto.
Ridefiniamo il “woke” in “scassacazzismo”.
Bene, vi siete divertiti, pettegoli che non siete altro, ma non vi ho raccontato questo aneddoto per vantarmi della prontezza delle mie reazioni: che il sottoscritto sia un gran figo, l’ho già detto, dovreste già saperlo, e oltretutto la controparte era veramente troppo sprovveduta per prenderci veramente gusto. Il fatto interessante è invece la sparutezza del miniassembramento, che assieme ad altri indizi mi fa sperare che forse, piano piano, la novità del fenomeno di tendenza stia perdendo di interesse e stia passando di moda. Forse quei fiancheggiatori con l’ansia da posizionamento virtuoso hanno trovato altri modi per aprire il loro cofanetto di ossessioni più remunerativi e meno noiosi che stare appresso alla pseudomilitanza “politica” (absit iniuria verbis) di queste quattro sgallettate. Forse tutte le mosche cocchiere hanno capito la portata della manipolazione e si sono ravvedute, oppure forse si sono semplicemente stufate e hanno lasciato queste sciacalle da sole con se stesse. Insomma, il “woke” potrebbe davvero essere in lento e inesorabile declino.
Siccome però questo benedetto declino non si accelera da solo, vediamo quantomeno di rendergli più facile il decorso: “le parole sono importanti”, e cominciamo da quelle. Anzi, da “quella”, ovvero “woke”: che significa tutto e niente (per non parlare di “intersezionalismo”), addirittura gli stessi “woke” si offendono se li chiami così; non che facciano testo, visto che si offendono pure se dici che oggi è una bella giornata perché in questo modo stai discriminando ieri e cosa hai da dire sull’altroieriiiiii, ma questa volta, per una volta, saranno accontentati. Come essi stessi dicono per giustificare quelle goffe desinenze con le quali maltrattano l’italiano, “la lingua si evolve”, e quindi vediamo di evolverla pure noi; se grazie a Fulvio Abbate abbiamo un neologismo che definisce l’“amichettismo”, io con il dovuto rispetto seguo la sua scia, e qui e ora, sul posto, propongo di uccidere una volta per tutte i vocaboli “woke” e “intersezionalismo”, e con essi la possibilità che qualcuno ritenga ancora credibili le loro ridicole istanze, e di coniare in loro sostituzione “scassacazzismo”.
“Scassacazzismo” definisce la pedanteria perniciosa di queste sacerdotesse (femminile sovraesteso) della lagna che appena si svegliano la mattina ce l’hanno già con qualcuno: cosa che le porta non solo a scassarsi il cazzo da sole (fin qui poco male), ma soprattutto a scassarlo alla stragrande maggioranza di noi normodotati, imperciocché, tra le altre cose, deformiamo il linguaggio al fine di renderlo “inclusivo”, non sessista, non binario, non oppressivo, non coloniale (giuro, ho sentito pure questa: tizia che “si innervosisce” se sente l’espressione “Medio Oriente” e tizia che corre a riferircelo come se fosse una cosa seria): come si vede, tra le espressioni linguistiche solo il “non scassacazzi” non è annoverato nell’inaccettabilità. E poiché la lagna ha valore retroattivo, non vi dico niente che non sappiate già, è d’uopo riscrivere canzoni (Mannoia che dici “un altro no”, ma chi sei, Putin?) e classici della letteratura in maniera da non traumatizzare questi piscialetto: quasi quasi adesso mi metto anche io a riscrivere “Il sabato del villaggio”, che sarà mai se alla prossima disagiata che strilla “presto, tutt* a bordo!” ci precipitiamo a salire sull’astronave per la galassia di Biskeron. Secondo voi, qual è il quoziente di intelligenza medio di queste persone?
Lo scassacazzismo è degli autocentrati.
La prima cosa da dire dello scassacazzismo è, appunto, che ha scassato il cazzo, praticamente a tutti. Fintantoché si chiamava “woke” è stato vincente sul piano sociologico e ancor più propagandistico: non solo ha attirato perdenti, emarginati, gente con problemi di relazioni anche minime, pappemolli che se nomini un trauma ridicolo loro ce l’hanno (i pronomi sgraditi, il patriarcato, il catcalling, gli occhiali che si appannano quando piove, i parrucchieri chiusi il lunedì), ma anche e soprattutto furbi bisognosi di validazione e promozione della propria virtù. Grazie allo scassacazzismo, facendo mostra di difendere gli “oppressi”, si veniva ascritti nel novero dei giusti a costo zero; poco importa che fosse in realtà uno stile di vita votato alla frustrazione e all’invidia sociale. L’oratoria scassacazzista era catartica, assorbiva le paure e il disprezzo di sé, li trasferiva verso un tramite autoritario, e per questo era efficace in proporzione alla quantità di certezza che riusciva a proiettare. Guarda caso, quando qualcuno tuttora ci propone con aria sognante esempi edificanti di inclusività come alternativa sostenibile, è sempre qualcuno (di solito una donna) che prende uno stipendio rimuginando su queste minchiate, qualcuno che invece di andare a zappare come avrebbe dovuto (e risolvere così il problema di “se vanno via gli stranieri chi te li raccoglie i pomodoriiiii”) si è improvvisata scrittrice perché è più divertente e meno stressante.
Lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché uno dei suoi fanatismi più insopportabili è quello dei pronomi. E non mi riferisco solo a quel parossismo tipico del travestito che ci affligge con i suoi video in cui si lamenta perché un cameriere insiste, chissà come mai, a chiamarlo “signore”, e allora lui per vendicarsi fa il bullo e cerca di farlo licenziare e poi, giustamente mandato affanculo dal titolare, cerca l’estrema rivalsa lapidandolo a mezzo social solo per rimediarsi un’altra bella salva di vaffanculi. Certo, se l’unica cosa che hai nella tua vita amareggiata sono i pronomi, se sei chiaramente uno sfigato che non ha mai avuto un grammo di potere in vita sua, e che finalmente ha scoperto un’ideologia che gli permette di esercitare del potere sugli altri sostenendo che morirai sicuramente di stenti perché non ti hanno chiamato “they” e che le parole feriscono come coltellate, scagliare le tue coltellate alla gola di un cameriere pagato a salario minimo per portarti le patatine mentre tu cazzeggi con la videocamera sicuramente ti dà un brivido di soddisfazione.
Ma c’è un altro pronome fondamentale per il lo scassacazzismo, ed è “io”: lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché è egoriferito. “Io”, la “mia”, esperienza, il mondo in rapporto a “me”: l’aneddotica diventa statistica, e lo scassacazzismo promuove a verità questo fraintendimento secondo cui tutto ciò che è personale sia interessante, quando invece non c’è niente di più provinciale che pensare che il mondo sia tutto uguale a quello che conosci tu.

Lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché la sua caratteristica fondamentale è rivendicare l’inclusione ma praticare il suo esatto opposto, e cioè la più ermetica chiusura mentale. Lo scassacazzismo non accetta deviazioni, compromessi o messe in discussione: o credi, obbedisci e combatti senza fiatare o ci sono conseguenze. Vuole uno specchio, non delle idee. Perché lo scassacazzismo si rifà all’arbitrio di poche satrape in cima alla catena alimentare, per le quali il tuo legittimo punto di vista, quale che sia, se è contrario al loro non è un’opinione ma un crimine fascista da censurare. Lo scassacazzismo presuppone il rifiuto di qualsiasi confronto, che vive come un trauma con conseguente corsa a trovare “spazi sicuri” nei quali ricacciare le lacrime. Esige il “diritto” inalienabile di ricoprire di fango chiunque si esprima contro, di falsificare le sue ragioni, di soffocare politici, esponenti della cultura, giornalisti (quei pochi), persino scienziati non osservanti, di spedire le proprie squadracce a qualsiasi convegno, manifestazione, libero incontro, espressione del libero pensiero o dell’altrui diritto che vada contro la loro egemonia. Riserva a se stesso il “diritto” di odio, e classifica come “odio” qualunque forma di resistenza. La sua idea di dialogo è una conversazione con frammenti di specchio come Travis Bickle.
Lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché lancia carognescamente accuse di misoginia, omofobia, transfobia, razzismo, fascismo in continuazione come niente, senza alcun fondamento, senza alcun passaggio dimostrativo che vada al di là del semplice anatema da ipsə dixit. Beh certo, dire che i tuoi pronomi sono un capriccio è proprio come marciare su Roma al passo dell’oca facendo il saluto romano, dimostrare che “un femminicidio ogni tre giorni” è una puttanata è come devastare sedi di partiti e sindacati e chiudere giornali (che poi queste cose non sono proprio loro a farle?), ricordare che le false accuse contro gli uomini superano l’80% è come promulgare leggi razziali e allearsi con Hitler, rivelare che anche gli uomini sono vittime di violenza agita dalle donne è come dire che Mussolini faceva arrivare i treni in orario: uguale proprio.
Lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché giustizia mediaticamente (e in qualche caso anche fisicamente) avversari e dissidenti con veri e propri ammazzamenti studiati, autentici atti di ferocia, sicuro di trovare complicità e omertà nella cosiddetta società civile e riflessiva. Non solo nelle invasate che inquinano la rete approvando senza riserve questa brutalità e finendo di fatto per legittimarla agli occhi della massa di sprovveduti, ma anche e soprattutto in chi ha la responsabilità della comunicazione nello sciagurato ambiente dello spettacolo, dell’arte, del giornalismo, della “gente che conta”. Lo scassacazzismo fa sì che se un paio di disperati danno della grassona a una qualche politicante o soubrette su Facebook scatena un pandemonio per giorni invocando l’emergenza nazionale, ma se sparano a Charlie Kirk mamma mia quanto la fate lunga, in fondo era un neonazista che voleva lapidare gli omosessuali e recludere le donne.

Cosa ha portato di buono il “woke”?
E infine (infine?) lo scassacazzismo ha scassato il cazzo perché non ha fatto altro che questo. Citatemi un solo progresso, un solo risultato, un solo miglioramento raggiunto dalla società (e persino dalle categorie-paravento), un solo ambito nel quale grazie a questo continuo scasso del cazzo si stia meglio ora di come si stava prima. Mentre a qualsiasi essere umano che non debba il suo stipendio a qualche nicchia scassacazzista vengono in mente immediatamente centinaia di esempi del contrario.
Ovviamente la battaglia è tutt’altro che vinta: come direbbero le intellettuali femministe (scusate l’ossimoro) “c’è ancora tanta strada da fare”, ma forse qualche ragione per sentirsi rinfrancati c’è: non sulla stampa, non nelle istituzioni, ma nell’unico contesto laddove abbiamo un qualche potere di intervenire, ovvero nel comune sentire, il “woke” è diventato scassacazzismo; e sentirsi scassare il cazzo non è mai piaciuto a nessuno. Estote parati, vigile attesa.