La Fionda

Scienziati USA: no alla “affermazione di genere” nei minori

Grazie a Trump, anche gli Stati Uniti hanno ora la loro review dell’evidenza scientifica sul trattamento della “disforia di genere” nei soggetti minorenni. Diversi paesi europei hanno condotto analoghe indagini negli ultimi anni, tra cui Svezia, Finlandia e il Regno Unito, che ha prodotto l’autorevole “Cass review” (dal nome della dottoressa che ha supervisionato i lavori) al termine di un impegno durato quattro anni, e anche l’Italia ha in corso un “tavolo tecnico” per stendere delle linee-guida nazionali. Trump aveva ordinato, nel suo executive order del 28 gennaio sul tema dei “minori trans”, un’indagine scientifica dell’evidenza internazionale disponibile, fissando un limite di 90 giorni di tempo. Ed ecco che, con un ritardo di soli tre giorni, la “Cass review” americana è stata pubblicata appunto qualche giorno fa. Si tratta di un documento di oltre 280 pagine, che ha il pregio di affrontare anche alcuni aspetti ignorati dalle indagini analoghe precedenti: l’impatto dell’uso di un linguaggio ideologicamente orientato, piuttosto che di quello scientificamente corretto, sulla ricerca e sulla pratica clinica; i problemi etici legati alla “affermazione di genere” sui minori; e l’esplorazione di approcci alternativi come quello psicoterapeutico. Qualcuno si è affrettato a sostenere che per la rapidità con cui è stata condotta e visto chi l’ha commissionata, questa analisi è da bollare come puramente ideologica e propagandistica. Certo i sospetti non sono illegittimi: Trump non ha mai fatto mistero delle sue posizioni in merito all’ideologia gender e alle “terapie affermative di genere”. Tuttavia, è sufficiente leggere il documento per rendersi conto che l’accusa è da respingere.

Il lavoro è certosino, ogni affermazione è corredata da argomentazioni precise e dettagliate e dall’elenco delle ricerche dalle quali sono corroborate. D’altra parte, gli estensori del documento si sono proposti di effettuare una meta-analisi di analisi sistematiche già condotte dalle istituzioni di altri paesi sui quali non è invece possibile alcun sospetto di orientamenti ideologici “transfobici”, come la Svezia, tradizionalmente vicina alle istanze dell’attivismo gender. Per quanto possa capitare che singole ricerche siano finanziate o condotte apposta per produrre risultati “orientati”, usando metodologie fallaci ad hoc oppure presentando le conclusioni in modo tendenzioso (come avvenuto ad esempio in questo caso), quando si conduce una review dell’intera evidenza disponibile a livello internazionale si valuta la qualità delle singole ricerche, scartando quelle poco attendibili, e tenendo conto solo di quelle più solide e robuste (con campioni sufficientemente ampi, protocolli corretti, risultati replicati da altre ricerche indipendenti, eccetera). In questo modo si arriva a conclusioni che rispecchiano in modo attendibile lo stato dell’arte su un dato problema, tanto più se diversi paesi, conducendo in modo indipendente indagini di questo tipo, hanno raggiunto conclusioni analoghe, come in questo caso: è il principio della “gerarchia delle evidenze” (che avevo già illustrato qui), su cui si basa l’approccio della “evidence-based medicine” dove si tende a privilegiare, ai fini dell’individuazione della migliore pratica medica per un dato problema, l’analisi ponderata delle evidenze scientifiche, rispetto all’esperienza e l’intuizione di singoli professionisti o gruppi di settore.

transizione affermazione di genere

La truffa del WPATH.

Proprio a questo approccio è improntata la review dell’Health and Human Services statunitense. Suggerisco a chi è interessato alla tematica, a livello professionale o meno, la lettura dell’intero documento finale. Ma, per chi non ne avesse la possibilità, sono sufficienti la “premessa” e la “sintesi” dei risultati (pagine 9-16) per avere un quadro completo delle conclusioni raggiunte dagli studiosi statunitensi, di cui merita tradurre e riportare di seguito alcuni passaggi (corsivi nostri): 1) «Le autorità sanitarie hanno riconosciuto l’eccezionalità di quest’area della medicina, dovuta a una convergenza di fattori. Il primo è che la diagnosi di “disforia di genere” si basa interamente sulle affermazioni dei pazienti e su osservazioni dei loro comportamenti, senza alcun indicatore oggettivo, fisico o di laboratorio. La diagnosi si basa su attitudini, percezioni, e comportamenti, ma è noto che nell’adolescenza questi aspetti sono altamente mutevoli. Inoltre, la storia naturale della “disforia di genere” pediatrica è scarsamente compresa, ma la ricerca disponibile suggerisce che essa tende alla remissione spontanea nella maggior parte dei casi. I medici non hanno alcun modo di individuare in anticipo quali pazienti fanno parte di quella minoranza che continuerà a soffrire di “disforia” dopo la pubertà, e quali invece no. Eppure, il modello “affermativo di genere” include interventi ormonali e chirurgici irreversibili su minori che non presentano alcuna patologia fisicamente rilevabile. Questi interventi comportano rischi significativi di danni permanenti, tra cui infertilità/sterilità, disfunzione sessuale, densità ossea diminuita, effetti cognitivi avversi, malattie cardiovascolari, disturbi del metabolismo, problemi psichiatrici, complicazioni post-operatorie. In tutto ciò, sempre più reviews sistematiche rivelano profonde incertezze sui presunti benefici di questi interventi».

2) «Generalmente, si tende ad attestare l’efficacia e la sicurezza di un trattamenti medico nella popolazione adulta, prima di eventualmente estenderlo alla popolazione pediatrica. In questo caso, invece, è successo l’esatto opposto: alcuni ricercatori hanno sviluppato il protocollo pediatrico in risposta a risultati insoddisfacenti in quei pazienti adulti che avevano intrapreso la transizione medica. E questi protocolli furono adottati a livello internazionale prima della pubblicazione dei primi risultati della sperimentazione» (aspetto molto importante, che avevo sottolineato qui); «mentre negli ultimi anni, a seguito del drammatico aumento delle diagnosi in soggetti minorenni e alla pubblicazione dei risultati di svariate reviews sistematiche, diversi paesi hanno deciso di restringere l’accesso di bambini e adolescenti con “disforia” a terapie ormonali o chirurgiche». 3) «Le linee-guida più seguite a livello internazionale per la “disforia di genere” in soggetti minorenni sono quelle pubblicate dal WPATH» (l’associazione internazionale dei professionisti del settore recentemente coinvolta da uno scandalo scientifico di cui avevo parlato estesamente qui) «e dalla Endocrine Society statunitense. Una recente review sistematica della qualità di queste linee-guida, tuttavia, porta a non raccomandare nessuna di esse, avendo stabilito come esse “manchino di rigore e trasparenza” … Nel processo della loro stesura, infatti, i dirigenti del WPATH hanno soppresso alcune evidenze scientifiche che avrebbero sconfessato il loro approccio “affermativo”. Non solo, gli estensori di queste linee-guida le hanno prodotte in violazione dei requisiti in merito al conflitto di interessi, e hanno eliminato pressoché ogni limite inferiore di età per gli interventi farmacologici e chirurgici in risposta a pressioni politiche».

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Come la lobotomia.

4) «Il principio dell’autonomia in medicina stabilisce un diritto morale e legale del paziente consapevole a rifiutare qualsiasi intervento medico. Tuttavia, non c’è alcun diritto parallelo a ricevere interventi non benèfici per la salute. Il rispetto dell’autonomia del paziente non può giungere fino a negare l’obbligo professionale ed etico dei medici di proteggere e promuovere la salute del paziente. L’evidenza disponibile dei presunti benefìci apportati dalla transizione medica in bambini e adolescenti è estremamente incerta, mentre l’evidenza del danno è molto più solida. E quando interventi medici implicano il rischio di danni sproporzionati e non necessari, non devono essere forniti, anche nel caso in cui siano richiesti e preferiti dai pazienti stessi, altrimenti si rischia un danno iatrogenico, minacciando l’integrità della professione e minando la fiducia generale nell’autorevolezza delle istituzioni sanitarie». 5) «Non è stata mai trovata alcuna associazione tra la “disforia di genere” e la suicidalità che fosse indipendente da altre condizioni di salute mentale compresenti, e non c’è alcuna evidenza che la transizione medica riduca l’incidenza dei suicidi, che resta, fortunatamente, molto bassa tra questi pazienti.

C’è attualmente un tabù sulla ricerca dell’efficacia della psicoterapia per il trattamento della “disforia” in bambini e adolescenti: ciò è almeno in parte dovuto alla caratterizzazione distorta che si fa di questi approcci come di “terapie di conversione”. Ma esiste una robusta evidenza in favore di questi approcci nel gestire le altre condizioni di salute mentale. La psicoterapia è un’alternativa non invasiva agli interventi ormonali e chirurgici, e l’evidenza finora disponibile non mostra alcun effetto avverso dell’applicazione di tale approccio in questo contesto». Il quadro quindi appare chiarissimo: questa mole di evidenza scientifica pone ormai un limite invalicabile alle pretese propagandistiche degli attivisti arcobaleno. Il Regno Unito e soprattutto gli Stati Uniti sono solitamente molto influenti sulla comunità scientifica internazionale: queste reviews pesano come macigni sulla “terapia affermativa di genere” per bambini e adolescenti e c’è da scommettere che avrà un potente effetto cascata sui decisori politici di altri paesi. Vedremo se sarà solo una fase temporanea o se siamo davvero, finalmente, avviati verso il momento in cui – come auspicato dal chirurgo Richard Bosshardt in un recente articolo dedicato all’orrore delle doppie mastectomie inflitte a ragazze adolescenti (citato dalla scrittrice J. K. Rowling sul proprio account X) – «guarderemo alla ‘terapia affermativa’ per i minori con la stessa repulsione che oggi abbiamo per le lobotomie. Fino ad allora, molti bambini continueranno a subirne le tragiche, e irreversibili, conseguenze».



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