Ogni settimana la cronaca sui minori vittime per mano femminile ci regala nuovi capitoli di un copione ormai tristemente noto, ma rigorosamente taciuto dal pensiero unico dominante. Carceri mediatiche colme di racconti monodirezionali sulla violenza, dati urlati a senso unico, mentre le storie di chi subisce silenziosamente, perché colpevole di non appartenere al “genere giusto”, vengono insabbiate dietro muri di silenzio ideologico. Eppure, basta dare un’occhiata alle notizie emergenti degli ultimi giorni per imbattersi nell’ennesima dimostrazione che la violenza non porta la barba, ma può avere anche mani laccate e toni educati. La cronaca di Como non lascia spazio a interpretazioni: due fratellini costretti a nascondersi nel proprio armadio per sottrarsi ai maltrattamenti della madre – che ironia, il “gentilsesso in azione”, come etichettano certi benpensanti che ancora credono nella leggenda della donne sempre e solo vittime. Dov’è l’indignazione? Forse servono centri di rieducazione, ma stavolta non per gli uomini.
Ma la realtà, come spesso accade, riesce a superare la fantasia. Nel frusinate, un’altra madre viene allontanata dal nucleo familiare dopo essersi scagliata ripetutamente contro il marito e il figlio disabile. Un figlio che, nella narrazione corretta, sarebbe stato l’oggetto di dedizione incondizionata materna. Ma il copione reale è più cupo: il ragazzo è considerato solo un peso, lui e il padre vittime di vessazioni, minacce e attacchi fisici, tra piatti che volano e minacce di morte. A chi ancora si riempie la bocca di stereotipi materni suggeriamo una lettura attenta di questa storia di violenza domestica dove a indossare i panni dell’aguzzina è proprio colei che il mainstream proclama incapace di simili nefandezze.

Tabù mediatici e pregiudizi ideologici: le vittime impronunciabili
La narrazione dominante continua a nascondere che le vere vittime di una violenza sistemica possono essere non solo le donne, ma anche i minori, spesso per mano materna. Basta sfogliare il caso di Giovanni, protagonista di un dramma psichico e fisico durato decenni sotto l’egida della madre che ha saputo manipolare ospedali e tribunali, mentendo spudoratamente mentre il figlio veniva coperto di lividi e umiliazioni, il tutto nella totale indifferenza delle istituzioni. L’ostinazione con cui il padre ha lottato per la tutela del figlio si è dovuta scontrare, per ben quindici anni, contro il muro di un sistema che riteneva inammissibile anche solo mettere in discussione la maternità come genitorialità migliore a prescindere. La famosa “maternal preference” – quel pregiudizio ideologico duro a morire – trova qui la sua perfetta rappresentazione: per i giudici, come dimostra questa vicenda drammatica, l’uomo che denuncia i maltrattamenti di una madre ai danni di un figlio viene guardato con sospetto, nel migliore dei casi considerato esagerato, nel peggiore addirittura visto come vendicativo e in cerca di ritorsione.
È ora di riconoscere che il dogma imposto sull’infallibilità materna e sull’innata bontà femminile ha prodotto più danni che benefici. Questo tabù ideologico non solo impedisce una giustizia vera, ma condanna all’invisibilità e alla solitudine padri e minori che da vittime subiscono in silenzio maltrattamenti da chi, secondo la narrazione distorta, non potrebbe mai essere carnefice. Quanti figli e quanti padri dovranno ancora affrontare un sentiero fatto di indifferenza, incredulità e diffidenza prima che la verità venga resa pubblica? Le storie di Como e Frosinone sono solo la punta dell’iceberg: quanto è diffuso questo fenomeno sotto traccia, nascosto dal pregiudizio e dalla paura di ammettere che la violenza ha molteplici volti e un solo comune denominatore – il potere, non il sesso biologico. Il sito La Fionda invita tutti a leggere di più, ad approfondire i dati sul tema nell’Osservatorio Statistico, per superare finalmente una narrazione stanca e ideologica. È ora di ribaltare la prospettiva: quelli senza voce, i bambini vittime di donne violente, meritano di essere ascoltati, protetti e finalmente creduti.