Da quando la Meloni è diventata ciò che sappiamo, e ancor più dopo il DdL sul “femminicidio”, le femministe doc, quelle social-progressiste, storiche o meno, non si danno pace. Da quel giorno, un tarlo logora le loro anime, un incubo percorre le loro notti, un rodimento che brucia senza tregua avvelena le loro giornate. Meloni ha sbattuto in faccia alle maestre, alle pasionarie, al gotha femminista, una realtà indigeribile. Nonostante il patriarcato imperante, il soffitto di cristallo, il pavimento di vischio e le pareti di gomma, è possibile fondare un partito, vincere le elezioni, diventare capo del Governo, restarci più di ogni altro, per poi salire (come ovviamente accadrà) al Quirinale come prima “Presidenta”. Tutto ciò ad opera di una popolana erede non pentita dei Quadrumviri, della Donna Rurale, dei “Figli alla patria!”. Sono cose che fanno male dentro, ragazze, tanto male.
In questa ferita sanguinante, la Giorgia ha sadicamente pensato ora di gettare una bella manciata di sale, affinché le dolenti si contorcano sbavando nella rabbia e nel rancore. Fare quello che nessuna di esse aveva ancora osato proporre: una bella leggina che distingua le pene a seconda del sesso. Il c.d. “DdL femminicidio” che prevede l’ergastolo per chi uccide una donna “in quanto donna”. Così 80 femministe rosse sono intervenute a liquidare l’idea, con motivazioni depistanti ventilando nientedimeno che “l’inutilità delle pene” (giacché tutto il male è dovuto alla “cultura patriarcal misogina”) dopo averle aggravate, le pene, con spietati giri di vite, invocati e implementati senza sosta dalla riforma del 1996.

Chi la fa franca dopo un femminicidio.
La proposta indecente è già stata demolita qui e più precisamente qui, nonché da altri altrove, operazione non difficile, dal momento che l’ergastolo per gli assassini (di uomini e di donne) è previsto da sempre nel Codice e comminato nelle sentenze. Iniziativa di pura propaganda quindi, che però ha il vantaggio di suggellare un dogma femminista, quello secondo cui la femmina vale di più del maschio. Differenza già ampiamente riscontrata nelle sentenze da tempo immemore e in modo così smaccato che qualcuno dovette rovesciarne il significato, parlando della leggerezza delle pene, a parità di reato, come di “una sottile forma di disprezzo” verso le femmine. Ah, la perfidia del patriarcato che ancora mezzo secolo fa sembrava invece misericordioso. Ma la manipolazione più grave sta nell’occultazione di un fatto impressionante. Con le norme attuali o con quelle future, ci sarà sempre una grossa quota di assassini che la passerà liscia, che non sconterà un solo giorno di galera. Proprio così.
Infatti, tra i colpevoli di omicidio di femmine, il 37% sul totale, il 44% sui delitti in ambito familiare e il 56% di quelli commessi da italiani, si suicida. (In Spagna il 57% degli spagnoli). Questi furboni emettono la sentenza di morte contro di sé e la eseguono. Fatto singolare che non si registra per nessun’altra categoria di delitti. Qui i numeri. Una quota abnorme che fa a pezzi la narrazione femminista del potere, del possesso, del dominio, della volontà di potenza, quale movente di quei delitti. Impotenza assoluta, dipendenza radicale, perdita del senso della vita, buio accecante e fine di ogni speranza. Crollo verticale del mondo e dei motivi per restarci. Questa è la causa, sulla quale non si è sentito verbo da alcun solone di Destra o intellettuale di Sinistra. Nessun psicosociologo ha parlato. Non se ne sono neppure accorti, quei sapienti. Solo noi conosciamo la quota di coloro che la faranno franca, che schiveranno anche l’ergastolo meloniano con la furbata del suicidio. E sappiamo perché. Noi conosciamo e riconosciamo la profondità del male che colpisce gli uomini. Solo noi.