«Evi lascia guida dei Verdi, “partito personale e patriarcale”», recita il titolo di una vecchia notizia dell’agenzia Ansa. «Rassegno le mie dimissioni… l’ennesimo partito personale e patriarcale». Non è la prima volta che sento criticare, da parte delle donne, i partiti politici con termini simili. In Spagna è ormai diventata una tradizione aggiungere a epiteti generici, come quello di “corrotti”, altri come maschilisti o misogini. Cosa si intende per… patriarcale? E, più importante, con questi termini, chi viene chiamato in causa? Le donne di questi partiti, si sentono chiamate in causa? Da un punto di vista semantico, questi termini caratterizzano negativamente e condannano la metà dell’umanità e, naturalmente, assolvono l’altra metà. Non è un caso quindi se queste parole vengono adoperate in prevalenza dalle donne (che, naturalmente, si auto-assolvono). Mi sorge spontaneo un dubbio: se un uomo politico si trovasse nella stessa condizione, quali parole adopererebbe per descrivere una situazione ribaltata? Con quali termini chiamerebbe in causa soltanto le donne di questi partiti? Tranne nel caso del termine “misoginia” (misandria), quali sono i termini speculari e ampiamente diffusi di “patriarcali” o “maschilisti”, che potrebbe adoperare un uomo politico nella sua critica alle donne politiche? Non ci sono. Le donne politiche scagliano queste parole come armi per far zittire le loro controparti maschili sotto il peso della colpa, senza che gli uomini abbiano uno strumento simile per far zittire le loro controparti femminili. Non c’è modo per l’uomo di rispondere specularmente all’offesa di “patriarcale” o di “maschilista” scagliata da una donna. La forza delle parole.
Quando si parla, non ci si limita a dire qualcosa o a esprimere un’idea, spesso si agisce. Tutti gli atti linguistici hanno delle conseguenze, hanno un effetto performativo, cioè provocano il compimento di un’azione o possono condizionare il comportamento, non solo di chi parla ma anche dell’interlocutore. Non solo gli enunciati che esprimono intenzioni (un desiderio, una promessa, un’esortazione, un ordine, una richiesta…), ma anche gli enunciati che descrivono determinati stati di cose in maniera neutra, che possono essere veri o falsi, possono avere delle conseguenze. “Fa freddo” o “oggi piove” possono condizionare il comportamento dell’interlocutore di uscire da casa o non farlo. Secondo il filosofo inglese John Austin (1911-1960), autore del libro Come fare cose con le parole, gli atti linguistici si presentano contemporaneamente come: 1. un atto locutivo, ossia l’atto di proferire un determinato enunciato; 2. un atto illocutivo, ossia l’atto performativo di compiere una determinata azione, in quanto essa si realizza nell’atto stesso di dire qualcosa (per esempio, dare un ordine); 3. un atto perlocutivo, ossia l’effetto pratico o psicologico che un enunciato produce sull’interlocutore, inducendo una certa disposizione d’animo o un certo comportamento, ovvero ciò che si ottiene facendo qualcosa col dire qualcosa. Secondo il filosofo, un medesimo enunciato può risultare locutivo, illocutivo e perlocutivo. Per esempio, nel compiere l’atto locutivo di dire che una determinata finestra è aperta, io posso compiere un atto illocutivo di suggerimento o di comando di chiuderla, e posso compiere, al contempo, l’atto perlocutivo di far effettivamente chiudere la finestra al mio interlocutore. L’effetto finale sarà deciso dal contesto generale della comunicazione.

Ethos e Pathos.
L’atto perlocutivo è quindi la conseguenza dell’atto linguistico, come convincere, allarmare, spaventare, tranquillizzare, spingere all’azione o ottenere una reazione (es. qualcuno che chiude la finestra dopo che gli è stato detto “sento freddo”), anche attraverso la colpevolizzazione e il senso di colpa (es. annullare un avversario politico, farlo zittire, spogliarlo dalla legittimità dei propri argomenti sotto il peso della colpa dopo che gli è stato dato del “patriarcale” o del “maschilista”). La forza perlocutiva è un concetto chiave della teoria degli atti linguistici e si può dedurre in base all’effetto. Ma gli atti linguistici non sono gli unici nel mondo della comunicazione che possono produrre un atto perlocutivo. In ogni atto linguistico di persuasione sono presenti fin dall’inizio due dimensioni: la dimensione razionale-argomentativa e la dimensione emotivo-passionale. Allo scopo di convincere, tutt’e due svolgono un ruolo importante. La componente razionale e logica, fondata metodologicamente “sulla prova”, con l’obiettivo di ricondurre nell’ambito della razionalità l’attività di qualsiasi discussione critica, è basata esclusivamente sulle parole. La componente emotiva e passionale può essere basata sulle parole, ma non necessariamente, molto spesso sono coinvolti altri elementi di comunicazione non verbale.
Secondo il filosofo Aristotele, la componente emotiva e passionale è declinata in due forme: l’ethos e il pathos. L’ethos, termine che si potrebbe tradurre come “carattere”, riguarda l’oratore. Egli è credibile non solo per i suoi argomenti, ma anche per i suoi atteggiamenti, per il suo modo di essere, per una serie di elementi (come potrebbero essere ad esempio la bellezza, la vulnerabilità, la fragilità, la virtù, la benevolenza, spesso elementi che costituiscono l’ethos dell’oratore femminile), rendendolo degno di fede. Il pathos riguarda l’ascoltatore, la passione, l’emozione che l’oratore è riuscito a suscitare in lui, perché le passioni «sono tutte quelle cose attraverso le quali gli uomini mutano i loro giudizi e che hanno per conseguenza il piacere e il dolore» (Aristotele, Retorica II, capitolo 1, 1378a20-22). Quando l’onorevole Evi imputa al partito di essere patriarcale, la forza del discorso non risiede unicamente nella parola patriarcale ma anche nella condizione femminile dell’oratore. Non produrrebbe lo stesso effetto la parola patriarcale pronunciata nella stessa situazione da un uomo. Per questo motivo è importante discernere il ruolo svolto da ognuna delle due dimensioni, razionale ed emotiva, nel discorso.
Il trucco del “patriarcato”.
Oggigiorno nel mondo occidentale il femminismo, ideologia dominante, ha il potere di influire quotidianamente e continuamente sul comportamento e sulle scelte delle persone. Nel discorso femminista la dimensione emotivo-passionale è quella assolutamente prevalente. Tutti noi, di fronte a un discorso, siamo portati a pensare, in prima istanza, che abbia a che fare con la verità, ma non è così. Il femminismo ha un pessimo rapporto con la verità, con la logica (valga come semplice esempio il dogma femminista che stabilisce la donna come vittima, malgrado storicamente e attualmente gli uomini superino di gran lunga le donne in quasi ogni ambito di sofferenza: suicidi, torture e normative che le regolavano, caduti in guerra, infortuni mortali lavorativi, povertà estrema, popolazione carceraria, schiavitù, vittime di omicidio…), e si muove perciò nell’ambito dell’emozione, il sentimento, la passione. Il fine della dottrina femminista, come quello di qualsiasi altra religione, non è quello di conoscere e di mettere sotto discussione i dogmi di fede, ma quello di convincere e di fare proselitismo, quindi la via congeniale di persuasione, dato il pessimo rapporto con la verità, è quella emotiva, non razionale. La potenza del discorso femminista, a volte vero, a volte verosimile e a volte semplicemente falso, non risiede nel messaggio, ma nel messaggero. La donna esercita un potere incantatore sull’uomo: lo affascina, lo seduce, lo persuade, lo soggioga, lo travia, modifica il suo pensiero, orienta il suo giudizio e la sua azione con magica illusione. L’uomo fa fatica ad accorgersi quanto il comportamento maschile sia condizionato dal suo desiderio di compiacere l’universo femminile. L’ideologia femminista non è altro che un’estensione della donna, di quel potere ammaliante. Il discorso retorico femminista più convincente è la lacrima di una donna, la sua vittimizzazione. Il discorso della lacrima femminile, della vittimizzazione della donna, è il grande motore degli atti perlocutivi degli uomini, che accorrono a sedare quelle lacrime. L’onorevole Evi scaglia la sua denuncia di “patriarcale” senza disturbarsi né di specificare il senso né di provare alcunché. Non serve. Desidera solo la solidarietà femminile e la contrizione maschile per la sua condizione di vittima, contrizione che gli uomini spesso sono disposti a manifestare.
La femminilità sottopone gli uomini a un effetto ipnotico del quale difficilmente ne sono consapevoli. Sull’uomo la donna è creatrice di convincimento in sé, al di là del contenuto del messaggio. Gli uomini vengono trascinati emotivamente dalle donne molto di più di quanto le donne possano venir trascinati emotivamente dagli uomini. Al dolore che l’uomo sente per la sofferenza femminile il femminismo ha aggiunto la colpa. La debolezza razionale di giudizio nella quale cade l’uomo si acuisce nella moderna società per la atomizzazione, alienazione e impotenza del singolo. Il primo passo che ogni uomo dovrebbe fare per lacerare il velo ipnotico e liberarsi da questo sortilegio femminile la cui potenza ipnotica dura solo quanto la fede che essi gli prestano, è quello di rendersi consapevole della soggezione emotivo-passionale alla quale viene sottoposto dal discorso femminista. È ora che la dottrina femminista, che si presenta come indiscutibile, vera e naturale, deva divenire terreno della riflessione critica. Il discorso femminista mette in crisi la distanza fra reale e irreale, tra il fantastico e ciò che è, tra chi finge di soffrire e chi veramente soffre; mette in moto attraverso le emozioni un meccanismo che finisce per incidere sulla nostra costruzione mentale, sulle nostre strutture percettive e giudicanti. Sollevato il “velo di Maya” del femminismo, ciò che si rivela allo sguardo al di là delle emozioni ingannatrici è una menzogna che inquina l’animo, che distrugge il fondamento dei rapporti collettivi tra i sessi e rende impossibile la comunicazione. Il messaggio dell’onorevole Evi è vuoto, non migliora il mondo né la convivenza tra le persone, non comunica nulla razionalmente, tranne la colpa maschile, millenni di sofferenza femminile sotto il giogo maschile. La forza del messaggio non risiede nel contenuto, ma nell’oratrice, in quanto donna. Ennesima vittima secolare del Patriarcato, in attesa di una reazione compensativa maschile.