Che il discorso dell’attivista woke citato alla fine della parte precedente non esprima l’accidentale posizione di un singolo ma stia nell’impalcatura stessa del pensiero woke lo dimostra che essa si ritrova tal quale anche nel linguaggio e nella struttura argomentativa di movimenti idealmente meno “estremisti” e “schierati”. Si veda l’esempio di questo post di un cosiddetto “gruppo di autocoscienza maschile”, parte di un movimento crescente (e legato a un business crescente, quello dei workshop di “sensibilizzazione” e formazione) di uomini femministi che affermano un ruolo della “mascolinità tradizionale” – vista come mero costrutto sociale e intrinsecamente tossica – e quindi una responsabilità di tutti gli uomini nella “violenza di genere”, e promuovono eventi e dibattiti con drag queens, dirigenti di Arcigay e attivisti woke per convertire altri uomini alla “decostruzione” della propria “mascolinità” (il mio approfondimento in merito si può leggere qui e qui). Il post era relativo a uno di questi eventi, e recitava: «Una delle cose più difficili da comunicare è stata che questo fest non vuole spiegare, ma generare una conversazione». Bello, no? Ma non fatevi illusioni, infatti si affrettano subito a chiarire: «Il che non vuol dire aprirsi a un contraddittorio, perché i diritti delle persone non sono negoziabili» (ricordate il “non si può negoziare” citato nella parte precedente?…), «ma provare a tendere una mano a chi vorrebbe provare a partecipare al discorso».
Non c’è spazio per il contraddittorio, chi ha ragione lo si sa già ed è prestabilito e ovvio (loro, i risvegliati, i woke), però ti tendono graziosamente una mano, povero stolto, se davvero hai intenzione di emendarti, fare mea culpa e aprirti alla Verità. Ribadiamolo: enunciazioni del genere non hanno alcun legame causale diretto con i crimini violenti fatti in nome di rivendicazioni ideologiche. Ma attestano una radice comune, la struttura di pensiero secondo cui le idee che contrastano le posizioni e pretese mascherate da “idiritti“, e quindi ritenute equivalenti a “oppressioni sistemiche” e crimini realmente agiti, non sono legittime, non devono avere spazio, devono essere negate, silenziate, criminalizzate e spazzate via dal movimento rivoluzionario di “liberazione degli oppressi”. Per il quale, mutuando sul piano culturale il discorso marxista, anche l’uso della violenza è moralmente comprensibile e giustificabile: struttura non accidentale, ma costitutiva e fondante del progetto woke. Un altro esempio è questa celebrazione della figura di Assata Shakur, deceduta di recente, da parte di soggetti come il collettivo dietro la rivista “Antitesi”, così descritta sui social: “Analisi e strumenti per la rivoluzione proletaria”, con like e repost ad es. da parte di Federica Fabrizio, giovane teorica femminista (l’avevamo già incontrata tra le fonti del nostro corso di Violenza di Genere) che glorifica la “nuova rabbia”, derivante dal «desiderio di non voler più ragionare per compromessi», come positivo motivatore e strumento di attivismo.

“Il rumore non risolve nulla”.
Assata Shakur, nel post celebrativo di cui sopra, è citata per questa frase: «Nessuno al mondo, nessuno nella storia, ha mai ottenuto la propria libertà appellandosi al senso morale delle persone che lo opprimevano» (tralasciamo la patente falsità storica di questa affermazione, che richiederebbe una trattazione a parte). Naturalmente, nella cultura woke, quel che conta è che tu ti percepisca come oppresso. Quindi, se non ci si può appellare al senso morale, che si fa per liberarsi dall’oppressione percepita? Stiamo all’esempio di Shakur: fu membro del Black Panther Party (diretta ispirazione, come abbiamo visto nella parte precedente, di E. Fanaeian, il cui movimento di “liberazione trans” è indagato per possibili complicità con l’omicidio di Kirk) e poi tra i dirigenti della Black Liberation Army, organizzazione armata e militante per la “liberazione nera”, protagonista negli anni ‘70 di vari crimini violenti e atti di terrorismo tra cui furti e rapine, omicidi di poliziotti, guerriglia urbana. La stessa Shakur, secondo l’FBI, si sarebbe resa colpevole di vari reati violenti. Arrestata, fatta evadere dal carcere da un commando di compagni militanti, troverà asilo politico nella Cuba di Castro.
Ma, si dirà, stiamo parlando comunque di circoli, collettivi, attivisti che per quanto noti e seguiti nella loro bolla radicale, sono innocui perché non raggiungono la grande maggioranza delle persone. Nessun personaggio noto e con un seguito popolare ampio, nell’Italia di oggi, esprimerebbe mai posizioni del genere. Giusto? No. Si ascolti questo discorso di Fedez – uno dei cantanti e influencer più seguiti specie tra il pubblico giovanile e noto per il suo brand di smalti per uomini – fatto nel suo programma giusto qualche giorno fa, rispondendo a una ospite attivista di Ultima Generazione che diceva “siamo un movimento non violento”: «Per cambiare le cose violenti dovete essere. Le bombe. Quando andavo nei centri sociali, apriva un centro sociale di destra? Gli davamo fuoco. Il rumore non risolve nulla. Fate delle belle attività di boicottaggio, mettete una bella bomba su un aereo piuttosto». Ma, si dirà, Fedez non è un vero e proprio attivista, e questo delirio lo ha espresso a titolo personale, mentre il femminismo e l’attivismo arcobaleno italiani non esprimerebbero mai posizioni del genere; per trovare qualcosa di simile nel femminismo bisogna risalire allo SCUM Manifesto di Valerie Solanas, che citate sempre come un disco rotto, ma lei era una malata di mente e non rappresenta certo una struttura teorica alla base del discorso femminista. Giusto?

La violenza è strumento dell’oppressione patriarcale, la non-violenza pure.
No. Negli anni ’70 la violenza femminista prese una forma molto concreta in Italia, con attentati in particolare diretti a soggetti antiabortisti, di cui si può leggere nel testo “La nuova violenza”, tratto dal libro Mara e le altre. Le donne e la lotta armata, e in quest’altra raccolta di fonti dirette. Cito a titolo di esempio una delle rivendicazioni riportate: «Non è vero che la violenza è estranea alle donne, da sempre la subiscono! Si tratta della violenza con cui ci hanno espropriato di tutto: corpo, mente, affetti, vita, è la paura che ci ha fatto accettare di vivere di rinunce. Rompiamo questa violenza su di noi per arrivare ad esercitare una violenza finalmente liberatoria, una capacità offensiva che è l’unico mezzo per rompere questo cerchio di oppressione che ci circonda». Ma, si dirà, questo linguaggio appartiene a una fase turbolenta della storia italiana ormai passata: oggi, che l’aborto è ormai legalizzato da decenni e le donne e le “persone LGBTQ” hanno gli stessi diritti di chiunque altro (se non di più…), questo linguaggio e queste teorie non le esprime più nessuno. Giusto?
No. Ricordate “Siamo furiosx”, la grottesca enunciazione di un movimento arcobaleno in risposta alla recente proposta di legge per regolamentare l’accesso agli ormoni bloccanti della pubertà per minorenni? Bene, si prenda questo opuscolo che lo richiama direttamente nel linguaggio già nel titolo: “Furiose e altre storie di rivolta frocia”, tradotto, compilato e diffuso (nel 2020, no 1920) sul web italiano da attivisti “anarco-queer” anonimi ma che si richiamavano al gruppo “Distro furiosa” e relativo blog. Vi si trova il racconto e la celebrazione di numerose azioni violente ad opera di “BashBack!”, “rete di gruppi queer” attivi tra 2007 e 2011 in USA e Canada, e in conclusione una “Lettera a chi si ribella al genere”. Per ragioni di spazio citerò solo alcune frasi, ma vi invito alla lettura integrale: «Gli articoli raccolti e tradotti … analizzano la violenza strutturale del sistema cis-etero-patriarcale e riportano esempi di violenza rivoluzionaria frocia e trans* … In questi testi, da una prospettiva frocia, queer, non-etero, si rifiuta l’idea di essere solo vittime dell’oppressione e si propone di non escludere azioni aggressive e violente in alternativa alle risposte remissive e nonviolente che la cultura patriarcale ci ha abituate ad avere … Purtroppo non in tutti i contesti politici antagonisti la violenza rivoluzionaria viene vista di buon occhio». Curiosa l’inversione, già intravista nelle parole dell’attivista a inizio articolo, secondo cui il pacifismo e la non-violenza sarebbero forme della cultura patriarcale e oppressiva, laddove questo stesso attivismo individua nel patriarcato e nell’oppressore “maschio bianco etero-cis” la radice di ogni forma di violenza (dalla “violenza di genere” alle guerre) da cui donne e “LGBTQ” sarebbero per natura immuni. In sintesi, la violenza è strumento dell’oppressione patriarcale, la non-violenza pure.
La distruzione woke del mondo è possibile. Ma è quello che vogliamo?
Ancora, dalla “Lettera”: «Ogni volta che una di noi riempie di botte un picchiatore omofobo, ruba soldi per comprare a tutte le amiche gli ormoni di cui hanno bisogno, riempie di colla le serrature di un negozio razzista o transfobico che ci ha licenziate, abbiamo dimostrato che la distruzione del mondo che ci rende miserabili è possibile». Altro esempio l’opuscolo “Spazi pericolosi. Resistenza violenta, autodifesa e lotta insurrezionale contro il genere”, tradotto e diffuso nel 2015, che nella postfazione (all’edizione del 2020, no 1920) riporta: «È evidente che il sistema patriarcale non arresta la propria violenza: i femminicidi, le violenze sessuali, gli attacchi alle persone trans*, non-cis e queer sono all’ordine del giorno. … Agire con violenza per liberarci e vendicarci può essere qualcosa che ci accomuni»; e tra i titoli degli articoli raccolti figurano cose come “Disforia significa distruzione totale”, “Vi faremo vedere zoccole impazzite”, “Il mio pronome di genere preferito è la negazione”, “Dalle candele alle fiaccole: vandalismo in alternativa al Giorno di Commemorazione Trans*“. Ma, si dirà, la diffusione di questi testi risale a cinque, dieci anni fa e il blog relativo non è più nemmeno aggiornato, è ovvio che questi sentimenti, pur richiamandosi a tesi e argomentazioni molto comuni nel discorso femminista e woke, appartengono a pochi sparuti elementi e comunque non sono più attuali. Giusto?
No. Un blog “anarcoqueer” italiano, cui il precedente faceva riferimento, è tuttora attivo e ad esempio, tra un post su “Micromachismi. La violenza invisibile nella coppia e il potere maschile nella coppia moderna” e una “Piccola guida di disempowerment per uomini profemministi”, quest’estate pubblicava un testo dal titolo Stonewall significa rivolta qui e ora, con queste parole nel post di presentazione: «la lotta contro la Polizia s’intreccia alle radici stesse della nostra storia collettiva, sottolineando le contraddizioni dei Pride negoziabili e strabordanti di sbirri. Le persone queer di oggi, ispirate dal coraggio di Black Lives Matter e dal ricordo della nostra storia tumultuosa, sono pronte a ricordare il fatto che la polizia rimane sempre un nemico della queerness» (ricordate le ronde del Black Panther Party rivolte specificamente contro le forze dell’ordine?). E non più indietro del gennaio ’25 pubblicava “La nonviolenza è patriarcale” (appunto), dall’opera del filosofo e attivista Peter Gelderloos Come la nonviolenza protegge lo Stato, in cui vengono raccontati diversi esempi di violenza femminista (tra cui il movimento tedesco Rote Zora che «insieme all3 alleat3 di Revolutionary Cells, realizzarono più di duecento attacchi – la maggior parte bombardando – tra gli anni ‘70 e ’80 del ‘900») e si sostiene che «le femminist3 pacifist3» si fondano su un “essenzialismo” sbagliato, che postula una preferenza femminile istintiva verso atteggiamenti passivi e non fisicamente aggressivi, in un quadro in cui la distinzione uomo-donna è un puro arbitrio culturale (caratterizzato da «implicita transfobia»). Tutto chiaro?