«L’ “emancipazione della donna” è l’odio istintivo della donna malriuscita, incapace di procreare, contro la donna completa; la lotta contro l’uomo è sempre soltanto un mezzo, un pretesto» scrive Nietzsche nella sua opera Ecce homo. Asserzione che racchiude in maniera efficace cosa pensa il filosofo dell’emancipazione della donna, ciò che oggi viene celebrato con il termine di femminismo. Com’è arrivato il filosofo a questo pensiero? Ripercorriamo brevemente il suo mondo concettuale, già introdotto negli interventi precedenti (1, 2, 3). Primo, la vita è dolore, lotta, distruzione, incertezza, precarietà… Secondo, il modo giusto di tendersi verso la vita, così come è, è quello dell’accettazione della vita. In questa vita, così come è, prevalgono i valori della forza, della creatività, della capacità di affermarsi, frutti della potenza vitale, che Nietzsche denomina la morale dei signori. Terzo, chi non riesce ad accettare la vita, così come è, né a vivere nei valori dei signori trasforma la sua impossibilità di affermarsi direttamente in una lotta morale contro i valori dominanti. In questa morale, la morale degli schiavi, ciò che un tempo era considerato “bene” (forza, potere, fierezza) viene trasformato in “male”, sostituita da altri valori (l’umiltà, la pietà, la sottomissione, la condiscendenza, la compassione, l’uguaglianza) che diventano il “bene”. Questa nuova morale, la religione cristiana, reazione dei deboli, degli oppressi, che non possono vivere i valori dei signori, è il frutto di un risentimento interiore dell’uomo debole verso la vita, una forma di invidia. «Predicatori dell’uguaglianza! La follia tirannica dell’impotenza invoca attraverso di voi l’uguaglianza; cosi le vostre più segrete voglie tiranniche si mascherano da parole di virtù! Presunzione umiliata, invidia repressa…». Secondo il filosofo, la morale degli schiavi, imposta dal risentimento, snatura la vita, tende alla negazione di aspetti essenziali dell’essere umano (la forza, la gioia, la creatività, la salute).
Quarto, Nietzsche sostiene che le donne siano più inclini ad essere deboli, propagatrici dei valori degli schiavi, e in questo modo condizionano gli uomini. Quinto, il filosofo attribuisce alla procreazione un ruolo fondamentale per la donna («…tutto nella donna trova una soluzione: essa si chiama gravidanza») allo scopo di raggiungere la condizione del Superuomo, così come l’uomo deve diventare guerriero: ognuno nella vita ha il suo ruolo. «Così voglio uomo e donna: buono per la guerra l’uno, buona per partorire l’altra, ed entrambi buoni per danzare con la testa e con le gambe. E sia perduto per noi il giorno in cui non si sia danzato neanche una volta! E si dica falsa per noi ogni verità per la quale non ci sia stata una risata!», così parlò il filosofo Nietzsche attraverso Zarathustra. Soltanto chi accetta il suo ruolo riesce a «danzare», cioè a essere felice. Sesto, si deduce che la «lotta contro l’uomo» della «donna malriuscita» è soltanto un «un pretesto», in quanto il vero motivo risiede nella non accettazione della propria natura e del proprio ruolo procreativo. La lotta della «donna malriuscita» non è quindi contro l’uomo ma contro la donna ben riuscita, «contro la donna completa» che accetta la vita, così come è, e il suo ruolo, bersaglio per questo motivo dell’«odio istintivo» della «donna malriuscita».
Nietzsche e la colpevolezza del forte.
Da questo mondo concettuale nietzschiano, esposto in maniera molto sintetica, si possono sviluppare alcune considerazioni interessanti. A mio parere, ci sono due parole chiave: accettazione e risentimento. Due ambiti, secondo Nietzsche, richiedono l’accettazione. Il primo, il più importante, è la vita, che è dolore, precarietà, incertezza, sofferenza…; chi non riesce ad accettare la vita, così come è, è destinato alla disperazione e all’infelicità, e spinto a cercare una colpevole, un capro espiatorio al di fuori di sé che giustifichi questa infelicità, il suo insuccesso, la sua impotenza e incapacità di vivere la vita, argomenti che saranno trattati nei prossimi interventi. Il secondo è il corpo e il ruolo che questo corpo assegna nella vita. Di nuovo, chi non riesce ad accettare il corpo e il ruolo che questo gli assegna nella vita è destinato a vivere un conflitto insanabile. Durante i lunghi anni di letture di testi femministi e simili c’è stato un fatto che mi ha colpito straordinariamente, sul quale non avevo mai riflettuto: il rapporto conflittuale che hanno le donne con la loro natura e il proprio corpo, che non ha paragoni nel mondo maschile: la gravidanza (schiavitù), il parto (schiavitù), l’allattamento (schiavitù), la maternità (schiavitù, annullamento di sé), le mestruazioni, la menopausa e le caldane, l’invecchiamento, la linea, l’ansia, il coito (anorgasmia, dolore…)… Una lettura veloce de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir può fornire un’idea. Le donne, in genere, e le femministe, in specifico, hanno un pessimo rapporto con il proprio corpo e con la propria natura: non l’accettano affatto, almeno le femministe. La non accettazione del corpo non può che derivare in una vita insoddisfacente e infelice.
Il risentimento è una conseguenza della non accettazione. Si tratta di una tendenza reattiva a opporsi ai valori affermati dagli altri, per debolezza o insensibilità, mascherata dalla compassione e dalla bontà (ad es. “il femminismo fa bene anche agli uomini”), di odio impotente contro tutto quello che non si può essere o non si può avere. Il risentimento definisce quindi moralmente “male” tutto ciò che egli non possiede, i doni di cui è privo, i rischi che non osa correre, i piaceri che è incapace di godere e interpreta dunque la propria incapacità in termini accusatori e colpevolizzanti; cerca una giustificazione morale per la sua debolezza e attribuisce la propria impotenza agli altri per non dover accettare se stesso come debole e incapace. In base a questo ragionamento, trovo molto azzeccato il titolo dell’opera Il risentimento nella edificazione delle morali del filosofo tedesco Max Scheler. Quanto risentimento si nasconde dietro la morale? Il risentimento è l’articolazione morale dell’invidia, l’espressione etica dell’impotenza del debole, che moralmente si auto-assolve e si deresponsabilizza per la propria situazione e condanna il forte per non essere miserabile quanto lui e lo individua come la causa della sua miseria. I deboli, «i predicatori dell’uguaglianza», mossi dal risentimento, dal loro desiderio di vendicarsi e dalla loro eterna attitudine accusatoria, cercano di inculcare la colpa nei più forti e di ridurre tutti al proprio livello e mediocrità: se qualcuno zoppica, tutti dovrebbero zoppicare. Se per Nietzsche la compassione rappresenta un pericolo per il forte, come accennato nell’intervento precedente, lo stesso accade con la possibilità che il forte si senta colpevole della miseria degli incapaci.
Risentimento e rivalsa.
Quanto c’è di femminismo in tutto ciò? Quanto risentimento c’è nella edificazione della morale femminista? È un dato di fatto il rapporto conflittuale che hanno le donne, in genere, e le femministe, in specifico, con il proprio corpo, la difficile accettazione di sé, la pessima percezione che le femministe hanno della propria natura, oggetti destinati come involucri alla prosecuzione della specie, un destino irrimediabilmente segnato dal dolore, il sacrificio, le mestruazioni, le gravidanze, incombenze dalle quali gli uomini sono per natura esentati. Il punto di vista femminile e femminista è necessariamente confrontato quotidianamente con l’esistenza degli uomini, esseri biologicamente gettati nel mondo per vivere e godere (il sesso) senza essere sottoposti alla volontà della natura, come succede alle donne. Secondo il filosofo Karl Jaspers, l’esistenza è sempre poter-essere o dover-essere, e in questo dualismo la presenza dell’uomo ricorda alla donna cosa potrebbe essere mentre la natura invece la riporta a cosa deve essere. Nel tentativo filosofico di chiarire chi sono io, la visione esterna del mondo offre sempre un altro punto di vista sulle possibilità dell’esistenza. Alla ricerca di un significato, l’esistenza cerca di uscire dalla sua dimensione unica e superarsi tramite il confronto con l’altro esistente. Ma la realtà resta quella che è: la donna resta una donna e l’uomo resta un uomo. La non accettazione da parte dell’ideologia femminista di questa realtà è alla base del confronto insanabile della donna con l’uomo che procura loro risentimento e invidia. Su questo argomento, consiglio la lettura di un vecchio intervento intitolato: Da dove nasce il femminismo.
Qualcuno potrebbe obiettare che la stessa accusa ribaltata potrebbe essere rivolta al “misogino” Nietzsche, risentito nei confronti delle donne. È da notare però che nella voluminosa opera di Nietzsche l’argomento donne è assolutamente periferico, mentre nel femminismo l’accusa anti-maschile resta il cuore dell’ideologia, l’oppressione e le colpe maschili sono punti essenziali. Il femminismo è frutto del risentimento e della rivalsa, donne femministe insoddisfatte del proprio corpo, della propria natura e della propria produzione, in contrasto insanabile con la biologia e la produzione maschile, che si è tradotto nella costruzione del mondo, realizzazione e dono che gli uomini fanno e hanno fatto alle donne e per le donne. Un dono che rappresenta per loro un affronto. Attraverso la morale femminista e il sovvertimento dei valori (la famiglia, il matrimonio, la paternità) si mira a colpevolizzare e umiliare l’universo maschile, ritenuto il responsabile delle proprie frustrazioni. Con la sua incessante richiesta di nuove leggi, normative, quote, tutele, il femminismo non solo ha incancrenito la convivenza tra uomini e donne ma ha reso possibile l’istituzionalizzazione della mediocrità. L’arrivo al potere dell’ideologia femminista ha significato il rafforzamento della struttura e della macchina dello Stato, una rivitalizzazione dei valori dettati dal risentimento. Per ulteriori approfondimenti su questi argomenti rimando alla lettura dell’opera La grande menzogna del femminismo (pp. 1112-1120), con la quale concludo: «Soltanto un inconscio rifiuto del proprio corpo e desiderio di rivalsa potrebbero spiegare perché, tra tutte le immagini che potevano essere scelte come simbolo femminile, le femministe abbiano scelto come manifesto icona delle donne We Can Do It!, l’immagine di una donna che mostra il bicipite scoperto a modo di sfida, come fanno gli uomini, una sfida all’uomo, a colpo di bicipite, già persa in partenza».