Se c’è un fenomeno che si sta espandendo a ritmo vertiginoso nel panorama giudiziario italiano è quello delle false accuse nei confronti degli uomini. Parliamo di un vero e proprio sport nazionale: tra stalking, maltrattamenti, violenze sessuali e chi più ne ha più ne metta, sono ormai decine i casi in cui la verità giudiziaria smonta senza pietà la narrazione della sedicente vittima, lasciando le macerie soltanto sulla pelle dell’accusato. Basta immergersi nella rassegna delle ultime settimane per vedere come il meccanismo di un sistema sbilanciato e unilaterale funzioni alla perfezione: la denuncia scatta automaticamente, un marchio d’infamia e condiziona irrimediabilmente la vita dell’uomo, spesso anche in assenza di qualsiasi riscontro reale.
Il copione delle false accuse ricorre puntuale. Prendi ad esempio la vicenda del ginecologo accusato da ben dieci donne di violenza sessuale: processato e assolto con formula piena, perché il fatto non costituisce reato. Le sue dieci denunce però restano, inossidabili, a pesare sulle statistiche della cosiddetta violenza di genere, distorcendo la percezione collettiva e alimentando la propaganda allarmista. Similmente, il Codice Rosso – concepito per tutelare le presunte vittime – parte dal principio che l’uomo sia colpevole fino a prova contraria. Lo conferma uno dei tanti casi in cui le false accuse di maltrattamenti della moglie vengono smentite dagli stessi referti medici; eppure le limitazioni cautelari alla libertà personale scattano in automatico, senza diritto al contraddittorio, senza alcuna occasione per l’accusato di difendersi tempestivamente.

Il paradosso della credibilità unilaterale: false accuse e il dogma del “Believe women”
Ormai il dogma è chiaro: ‘Believe women’. Credere sempre e comunque, anche di fronte a chat smascheranti, contraddizioni e prove inesistenti. Sono emblematica le sequenze a catena di false accuse lanciate da ex mogli e compagne dopo separazioni conflittuali, come accaduto nei casi recenti in Emilia, dove le stesse denunce archiviate vengono riciclate per inventarne delle nuove – salvo poi essere sbugiardate in tribunale dalla data dei messaggi. Altro che ricostruzione dei fatti: il sistema alimenta una narrazione preconfezionata, pubblica e avallata da gran parte dei media. Persino quando la magistratura assolve con formula piena, tutto viene raccontato come una sfortunata eccezione, mai come un sintomo di un sistema che favorisce e incentiva l’abuso e la strumentalizzazione della giustizia.
Non mancano gli episodi di accuse platealmente strumentali, spesso orchestrate per motivi di rivalità, vendetta o convenienza processuale. È il caso dell’artista Dario Veca, sottoposto a dieci anni di persecuzione giudiziaria – collaborazioni professionali sfumate, vita privata devastata – solo per scoprire, al termine di ben due processi, che “il fatto non sussiste”. Un intero decennio perso per una vendetta personale, con il danno ormai irrimediabile. O ancora l’ex carabiniere trascinato in cella per sei mesi dopo le accuse di moglie e figlia, salvo essere prosciolto con formula piena su richiesta dello stesso pubblico ministero, e ora le accusatrici rischiano l’imputazione per falsa testimonianza e calunnia. Queste vicende, che abbondano nella cronaca giudiziaria come una triste routine, mostrano un sistema che si regge su statistiche viziate dal falso e da denunce infondate – ma che nessuno si sogna di ripulire, perché a qualcuno fa comodo che quei numeri restino alti. Il problema non sono più solamente le singole menzogne, ma l’intero meccanismo che permette e incentiva la produzione seriale di accuse: un sistema che al posto della presunzione d’innocenza ha scelto la colpevolizzazione automatica dell’uomo, offrendo terreno fertile alla calunnia come strumento di pressione familiare, vendetta post-rottura o semplice tutela della reputazione della presunta vittima. Se questa è giustizia, lasciamo ogni speranza. Invitiamo i lettori più consapevoli ad approfondire queste e molte altre vicende direttamente sul nostro sito e sulla sezione Osservatorio Statistico: la realtà raccontata dai numeri veri è ben diversa dalla favola mainstream.