Nel 2018 un padre fa ricorso in Cassazione contro l’affidamento in via prevalente alla madre, chiedendo di passare con la piccola lo stesso numero di giorni della ex moglie, ma la Corte respinge la richiesta, con queste motivazioni: «Va ricordato che il principio di bigenitorialità si traduce nel diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse, ma ciò non comporta l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore, in quanto l’esercizio del diritto deve essere armonizzato in concreto con le complessive esigenze di vita del figlio e dell’altro genitore». A seguito di queste motivazioni scrive Eugenia Roccella, attuale Ministro per le pari opportunità e la famiglia: «semplice buonsenso, quello della Corte. È evidente che il benessere del bimbo dovrebbe essere anteposto a tutto, e che essere un bravo papà, una brava mamma, non si può calcolare solo in termini di tempo. […] Tempi rigidamente uguali rispondono al bisogno del genitore di affermare i propri diritti in un conflitto, non certamente alle esigenze del figlio». Infatti, «semplice buonsenso», «il benessere del bimbo» dovrebbe prevalere su tutto, chi potrebbe dissentire? Per questo motivo, a nome del «benessere del bimbo» e delle sue «esigenze», in Svizzera si sottraevano i figli alle famiglie zingare, in Australia alle famiglia aborigene, in Americane a quelle nere, nel Regno Unite a quelle povere, ecc., e oggi nel mondo Occidentale ai padri. Se la giustizia non è stabilita su oggettive ed esatte misure quantificabili e confrontabili ma lasciate, ogni qualvolta, alla libera soggettiva “buona” volontà di chi giudica e stabilisce le indefinite «proporzione matematiche», come augura la Roccella, allora il risultato è sempre aleatorio e variabile e soggetto al pregiudizio del giudicante ( e della società) che li emana: ora razzista, ora fascista, ora antisemita, ora antipaterno…
«Mentre per togliere l’affidamento alla madre non basta la volontà dei figli, né i reati penali commessi su di loro, e nemmeno nascondere la gravidanza e far finire il pargolo nello scarico, per dichiarare inadatto il padre basta un nonnulla. E così abbiamo numerosi padri estromessi nella crescita dei propri figli, ritenuti inadatti o meno capaci delle madri dai Tribunali, che ne crescono altri, frutto di altre relazioni previe o successive, o figli delle loro nuove compagne, senza che nessun Tribunale abbia per questi altri minori niente da obiettare, in linea con il volere della nuova compagna donna-madre, che non ha sollevato alcuna obiezione. Nelle cause di separazione, le inadeguatezze del padre si trovano su richiesta delle madri. Nessuna prova è dovuta, quando nasce il figlio, delle proprie capacità genitoriali, ogni prova è dovuta all’ora della separazione» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, p. 712). Lei è violenta, non importa, assegno, casa e figli vanno a lei. Lei abbandona l’abitazione coniugale, sottrae il figlio al padre e non lo porta a scuola, non importa, sette anni per levarle la patria potestà e lei ancora a piede libero col figlio in luogo sconosciuto. A sessi invertiti, il padre sottrae il figlio, dopo nemmeno un giorno (20 ore dopo, per la precisione) era già in prigione e il figlio restituito alla madre. Stesse leggi, stessi tribunali, stesso paese. Proporzioni matematiche non paritarie. Lei uccide il padre, non importa, non perde la patria potestà e l’affidamento va ai nonni materni, contro la richiesta della famiglia paterna, che voleva l’affidamento per sé.
La depressione post-partum.
Lei mente sulla paternità, sottrae i figli ai (diversi) padri, fa uso di sostanze e alcool, i servizi sociali costatano l’abbandono dei figli, non importa, dopo sette anni il Tribunale dà ancora un’altra opportunità alla madre e non revoca l’affidamento. È normale che dopo succedano eventi tragici come quello avvenuto in Argentina con il piccolo Lucio, ucciso dalla madre e dalla compagna sentimentale di questa (un’altra lei), vittima di «maltrattamenti, torture, violenza e abusi sessuali». Il bambino era stato portato al pronto soccorso in diverse occasioni con contusioni, senza che i servizi fossero mai intervenuti. Al padre, che lottava nei tribunali per l’affidamento fin da quando Lucio era nato, senza risultati, la madre impediva di vederlo. Ma neanche da assassine le madri perdono l’affidamento sui figli. Il tribunale ordina seppellire la bambina, uccisa dalla madre, nella località scelta da lei contro la volontà del padre, che voleva seppellirla nella località dove risiedeva. Ora, per togliere l’affidamento a un padre invece basta un nonnulla. Intanto basta una denuncia (spesso strumentale, fatta dalla ex) a fargli rischiare di perdere l’affidamento, fintanto che dura il procedimento. Ma anche se lavora troppo, se il lavoro è soggetto a dei turni (es. pompieri, dottori, infermieri…), o se per motivi lavorativi lascia i figli troppo spesso alla cura dei nonni, anche quando questa cura è «corretta» e «la relazione del padre con i figli è buona» (sono convinto che siano molto numerose le donne separate che affidano i figli alla cura dei nonni finché escono, vanno in vacanza o al lavoro, senza che questo sia mai stato reputato un problema, né dai tribunali, né dalla Procura, né dai servizi. Nella mia separazione succedeva proprio così, quando la mia ex andava a lavorare; malgrado la mia disponibilità a stare con i figli e le numerose denunce perché mi veniva ostacolata la frequenza, i figli venivano lasciati con i nonni, mai stato un problema per nessuno).
Anche quando il padre fuma troppo. Sinceramente non conosco la percentuale di fumatrici accanite tra le donne affidatarie dei figli, anche se immagino che non sarà trascurabile, ma so di certo che i tribunali non sollevano alcuna obiezione alle donne che hanno fumato, bevuto o agito altri comportamenti deleteri per la salute dei figli quando erano incinte, un danno di gran lunga peggiore di quello che si può recare ai figli già nati dalla convivenza per fumo passivo. Persino la caffeina di un caffè giornaliero reca gravi danni al feto, ma questi comportamenti deleteri durante la gravidanza non pregiudicano un risultato negativo successivamente per l’affidamento. A questo proposito, trovo interessante fare una riflessione sul concetto di depressione post-partum, per capire i due pesi e le due misure usati dai tribunali. La depressione post-partum è una realtà riconosciuta scientificamente, tradotta nei codici penali e applicata dai tribunali in caso di infanticidio in tutto il mondo occidentale. La durata varia (misteriosamente) da paese a paese, da qualche mese fino a un massimo di dieci anni di vita del figlio in Nuova Zelanda. Tutte le neomadri rischiano la depressione post-partum, motivo per il quale vengono inflitte a loro pene ridotte quando agiscono violenza o, persino, uccidono il minore. I padri non soffrono di depressione post-partum e quindi non rischiano di commettere, per questo motivo, questi stessi tragici atti a danno dei figli. Questo fattore di rischio stranamente non entra mai nei procedimenti per l’affidamento dei figli di genitori separati.
La sproporzione degli affidamenti.
Eppure siamo inoppugnabilmente di fronte a un fattore che aggrava la posizione di uno dei due genitori, la madre, a favore dell’altro, il padre. Se un genitore è alcolizzato, o lo è stato, non significa che dalla sua condizione possano derivare necessariamente effetti negativi per i figli, ma esiste una più alta probabilità che così succeda. L’alcolismo, dunque, è un fattore di rischio, valutato negativamente dal giudicante. Persino qualsiasi forma di depressione, episodi depressivi vissuti, anche se guariti, o l’inclinazione alla depressione certificata, si valuta negativamente. Qualsiasi…tranne la depressione post-partum. La depressione ha un impatto negativo anche per l’educazione e la cura del minore, per motivi facilmente immaginabili che non c’è bisogno di elencare, oltre che per qualsiasi altra situazione di vita, compreso il lavoro. Nella depressione le prestazioni lavorative peggiorano. Perché i datori di lavoro dovrebbero assumere lavoratori che rischiano di essere inclini alla depressione? Un poliziotto armato depresso, non rischia di colpire indiscriminatamente le persone? Non viene allontanato dal servizio? Un giudice depresso, non rischia di pregiudicare decisioni importanti e di rovinare così le vite altrui? Un pilota, non rischia di far precipitare l’aereo? In breve, se i tribunali e la scienza riconoscono a tutte le madri la depressione post-partum quando si tratta di diminuire loro la responsabilità e attenuare le loro colpe, dovrebbero riconoscerla anche quando compromette la loro capacità e aumenta il rischio, sia al lavoro sia nell’affidamento dei figli. Dovrebbe essere un argomento a favore del padre in ogni controversia sull’affidamento, per la durata stabilita in ogni ordinamento penale per l’infanticidio, in Nuova Zelanda, ad esempio, fino ai 10 anni dei figli, cosa che non avviene.
«Un appartamento viene dato in assegnazione “nell’interesse dei figli minori”, un trasferimento viene autorizzato “nell’interesse dei minori”, una modalità di visita più ampia viene negata “nell’interesse del minore”, il rimpatrio di un figlio oggetto di sottrazione internazionale è sconsigliabile “nell’interesse del minore”, oppure in altri casi diventa consigliabile sempre “nell’interesse del minore”, gli incontri protetti vengono stabiliti (e prolungati sine die) “nell’interesse del minore”…» (tratto dall’opera, Perché i giudici non sono bambini…, p. 43). Ora sì, ora no, e tutto può cambiare contraddittoriamente «nell’interesse dei minori», ogni decisione presa è giustificata per il «benessere del bimbo». È normale che la Roccella sia contraria alla suddivisione dei costi e ai tempi di frequentazione paritari, come lo è sempre stato tutto il movimento femminista, esplicitamente contrario all’affidamento condiviso, avversato nel 1996 nell’Agenda della National Organization of Women (NOW), la maggior organizzazione femminista degli Stati Uniti, o richiesta la sua abolizione al Congresso (Spagna). È normale che la Roccella non condivida perché lei, in quanto donna, in questa società e con questi tribunali anti-paterni, non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. Perché la legge è uguale per tutti, l’interpretazione della legge no, e questa interpretazione danneggia sistematicamente gli uomini in ogni singolo argomento, compreso quello sensibile dei figli. Una legge che è uguale per tutti non riesce a spiegare l’oscena sproporzione tra gli affidamenti concessi alle madri e quel numero irrilevante concesso ai padri.

Le circostanze contano.
P.S. Nell’ultimo intervento domenica scorsa avevo riferito di eventi di cronaca nera nelle cause di divorzio eseguiti da “normali” cittadini a difesa del proprio patrimonio. È bastata purtroppo soltanto una giornata dal mio intervento per averne conferma con l’ennesima notizia (pubblicata il lunedì, 26 maggio). Un cittadino americano, Jon Worrell, è stato arrestato, venti anni fa aveva organizzato l’uccisione della moglie, Doris Worrell. I coniugi non andavano d’accordo e Jon Worrell aveva una relazione segreta con la babysitter, una donna della Costa Rica di 18 anni. Dopo la morte della moglie, Jon Worrell si trasferì in Costa Rica, dove avrebbe vissuto con la babysitter per 20 anni e cresciuto i figli. Per quale motivo Jon Worrell avrebbe pianificato l’assassinio della moglie? Testuale: «Jon aveva paura delle conseguenze del divorzio con Doris». Nessun riferimento all’idea del possesso patriarcale, o alla non accettazione della separazione, o al fatto che il marito fosse un violento… Quali possono essere, quindi, le paure scatenate dalle conseguenze di un divorzio? Senza entrare nel merito né esprimere giudizi morali sul tradimento, Jon Worrell voleva semplicemente vivere con il suo nuovo amore, con il suo patrimonio, come dimostra ciò che lui ha fatto per venti anni. Le conseguenze riguardano quindi il patrimonio, è evidente che Doris Worrell sarebbe ancora viva se il marito non avesse percepito il divorzio come una istituzione dedita a sottrargli ingiustamente una fetta considerevole del suo patrimonio. Una percezione che è purtroppo molto fedele alla realtà.