Ormai i nostri lettori lo sanno bene, giugno è il mese dedicato alla salute mentale maschile. Purtroppo, però, giugno è anche dedicato a un’altra cosa che riceve molta più attenzione e cioè i cosiddetti “Pride” (ex “Gay Pride”): carnevalate (letteralmente, cari attivisti abcdefghi+, dato che sfilano carri e gente in vari travestimenti) dedicate allo sbattere in faccia alla brutta e cattiva società etero-cis-normativa e patriarkale quanto è bello e divertente essere omosessuali, transessuali o altre cose meno chiare. Ok, e chi dice di no… Molti tra i meno informati però, anche tra gli omosessuali, transessuali e compagnie belle, ignorano che i “Pride” non sono affatto semplici sfilate, anche se fanno di tutto per camuffarsi come tali, tra carri, costumi, gente seminuda, musica a tutto volume, persone al guinzaglio e quant’altro: sono vere e proprie manifestazioni politiche, con tanto di documenti politici a corredo, che vengono redatti da comitati appositamente selezionati dai coordinamenti delle associazioni promotrici.
Questi documenti politici li leggono in pochissimi in effetti, e c’è da scommettere che delle persone che partecipano a un “Pride”, forse una su cinquanta avrà sfogliato il relativo documento politico. Ma questi testi hanno uno scopo preciso e importante: segnalare ai partiti e ai gruppi di interesse “vedete, queste sono le richieste avanzate da questa manifestazione: se vi mostrerete bendisposti, buona parte dei partecipanti e delle loro cerchie saranno vostri potenziali elettori, per nostro tramite!”. Per questa ragione non bisognerebbe prendere i “Pride” alla leggera, come carnevalate tutto sommato innocue: si aggiunga il fatto che, pur esprimendo documenti politici molto precisi (quindi espressioni di interessi e ambizioni parziali), essi ricevono anche soldi pubblici per la loro realizzazione. Per quanto si possa essere – come noi di LaFionda.com – a favore del diritto di manifestare per qualsiasi idea o obiettivo politico, va da sé che non ogni idea o obiettivo politico incontrerà il favore di ciascuno: perciò occorre non fidarsi della propaganda, che cerca di far passare i “Pride” come semplici “feste” in cui semplicemente si celebra “l’amore”, ma vedere un po’ questo amore in che forma si presenta di preciso.

Prima la colpevolizzazione, poi le pretese.
I “Pride” del 2025 sono oltre 50 (alcuni già passati, altri ancora da venire), più molti di essi prevedono tutta una serie di altri eventi collaterali tra ricreativi e “culturali” (cioè indottrinamenti), anche questi realizzati con l’ausilio di fondi pubblici elargiti tramite meccanismi come la “Rete RE.A.DY” (“Rete nazionale delle Regioni e degli Enti Locali contro le discriminazioni”) appunto con la nobile scusa di “sensibilizzare” alla lotta contro “le discriminazioni”. La grande maggioranza dei “Pride”, dicevamo, ha il suo documento politico. Esaminarli tutti richiederebbe troppo spazio: ci limiteremo a dare un’occhiata a uno dei più importanti per numeri (gli organizzatori parlano di un milione di persone, 200.000 per la questura…), quello di Roma, tralasciando le espressioni di odio violento (ma come..? e “l’amore”?) contro personaggi come Donald Trump e J. K. Rowling che vi si sono inscenate; in articoli che seguiranno, ci soffermeremo più in dettaglio su due punti che meritano un trattamento più ampio.
Il “manifesto politico” del Roma Pride è un testo abbastanza snello – ce ne sono di più lunghi e pesanti, come quello del Toscana Pride, o decisamente articolati e complicati, come quello del Salento Pride, strutturato su più “livelli” con postille, addenda e allegati vari. Si parte subito in bellezza: «Ci hanno derise, siamo state cacciate di casa, ci hanno picchiate, ci hanno ucciso» (ma quindi come fanno a scrivere il documento e scendere in piazza?), «essere persone LGBTQIA+ significa vivere ai margini: criminalizzatə, censuratə, ridottə a bersagli politici. Nel 2025, la nostra libertà è sotto attacco». Gli estensori del documento vogliono che sia recepito forte e chiaro anzitutto un messaggio: che loro sono vittime sacrificali, sistemicamente oppresse anche in senso fisico. Praticamente già tutt* mort*. Vittime di chi lo avrete già intuito, ma lo dicono poco più avanti: «di quel sistema patriarcale che ha già violentemente deciso chi e come dobbiamo essere». Devono farvi pena, devono suscitare sdegno morale per la loro miseranda condizione di perseguitati politici: perché, in questo modo, diventa ovvio che abbiano diritto a un risarcimento, no? E infatti, a questo inizio pimpante – non subito, però, ma dopo una lunga sfilza di altre accuse, in alcuni casi calzanti come «ci accusano di propagandare il gender, di spaventare i bambini»: non vediamo errori – fanno seguito le pretese.
La trappola dell’autodeterminazione.
Sembra quasi di sentire le richieste urlate in un megafono da una banda di rapitori con decine di ostaggi, e in effetti dopo quelle pesanti accuse, ci sentiamo già un po’ tutti ostaggi morali degli abcdefghi+. La prima richiesta è facile facile, e molto in linea con “idiritti” abcdefghi+: «condanniamo con forza la strage in corso a Gaza… chiediamo il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi israeliani e il rispetto delle condizioni di tregua, la protezione dei diritti umani, la ripresa delle trattative di pace, basate sulla soluzione di due popoli, due Stati». Talmente facile, universale e in linea con il tema dei “Pride” che in alcuni casi, proprio per divergenze su questo argomento, una parte della “comunità” abcdefghi+ ha deciso di staccarsi e farsi il proprio pridettino a parte, come accaduto a Napoli: due “feste”, due “loveislove”. E questo era appena un preliminare. Il primo punto è “La Richiesta” con la maiuscola, il sogno bagnato di tutti gli ideologi gender: «Rivendichiamo il pieno rispetto dell’autodeterminazione dell’identità di genere di ogni persona, anche piccola» (ricordate, le “piccole persone”?) «Chiediamo il pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione delle persone trans binarie e non-binarie, compresa la possibilità di scegliere liberamente i percorsi di affermazione che meglio rispondono alle proprie esigenze e desideri, senza interferenze esterne o giudizi discriminatori, senza sovradeterminazioni di carattere psicologico, fisico e medico».
Chiaro? Nessuna “interferenza” o “giudizio” di nessun tipo: se un autoginefilo (cioè, uno che gli piace travestirsi) con barba e bigolo dice di essere donna, È una donna, e tutta la società lo deve assecondare, anche a livello legale. Punto e basta! «Sosteniamo anche la piena autodeterminazione delle persone bambine e adolescenti con varianza di genere e chiediamo che possano avere accesso, quando necessario, su tutto il territorio italiano a percorsi di affermazione di genere basati sulle linee guida scientifiche internazionali già esistenti». Se un bambino di cinque anni dice di essere una bambina, È una bambina, e tutta la società lo deve assecondare. Subito nome femminile, vestiti da bambina, e a otto-dieci anni via con i castranti chimici per “bloccare” la pubertà, per prepararlo… ehm, prepararlA meglio al taglia-e-cuci: che arriverà verso i 14-15 anni, quando la “piccola persona” sarà ormai perfettamente in grado di “autodeterminare il proprio corpo” e comprendere appieno le conseguenze a lungo termine di tali interventi come medicalizzazione continua, infertilità, osteoporosi, complicanze della chirurgia eccetera.