Nei bagni delle donne ci devono andare le donne. Per gli uomini ci sono quelli degli uomini. Può sembrare un’affermazione logica e banale, ma in tempi in cui una crescente fetta di popolazione sembra non sapere bene neanche cosa sia, una donna, pure questa diventa una faccenda complicata per la quale occorre tirare fuori prove, dati e ricerche. Il “dibattito sui transgender nei bagni delle donne” (così detto sebbene riguardi più tutti gli spazi separati per sesso e, indirettamente, qualsiasi tipo di diritto o norma che implichi una distinzione tra i due sessi) è entrato nel discorso pubblico da almeno una decina d’anni e periodicamente torna alla ribalta per via di qualche notizia eclatante. Una decina di giorni fa è uscita la sentenza in merito al caso di Sandie Peggie, infermiera al Victoria Hospital di Kirkcaldy, contea di Fife, Scozia. Peggie era stata sospesa dal National Health Service (NHS) in seguito all’accusa mossale dal Dr. “Beth” Upton (“donna trans”, cioè uomo) di bullismo e molestie. I comportamenti contestati a Peggie erano alcune battute “politicamente scorrette”, compresi alcuni commenti relativi al Dr. “Beth” Upton, come riferirsi a lui con una collega come «un uomo vestito da donna». In risposta alla sospensione ricevuta, Peggie ha deciso di denunciare il NHS e il Dr. Upton per discriminazione, molestie e persecuzione della libertà di credo personale.
L’accusa di molestie in particolare si riferisce alla circostanza di un alterco avvenuto la sera di Natale del 2023. Upton e Peggie si ritrovano nello stesso spogliatoio (femminile), Peggie chiede al dottore di uscire per consentirle di spogliarsi, ma il dottore rifiuta: ha ricevuto un esplicito permesso dal NHS di Fife di usare gli spogliatoi femminili, in quanto “donna trans”, e anzi con questo comportamento è lei che sta mettendo a disagio lui. Nel corso del processo sono emersi molti particolari significativi, tra cui il fatto che il NHS non aveva ritenuto di consultare o almeno informare il resto dello staff del Victoria Hospital del permesso accordato al Dr. Upton; che la preoccupazione e il malcontento in merito non era limitato alla sola “transfobica” Sandie Peggie, ma era diffuso nello staff dell’ospedale (almeno 13 colleghi sono stati invitati a testimoniare); e la conferma che il Dr. “Beth” Upton è biologicamente uomo, non meramente per i cromosomi, ma proprio in ogni aspetto fisiologico. Ebbene, la sentenza ha dato in parte ragione a entrambi, riconoscendo a Peggie di essere stata vittima di procedure disciplinari ingiustificate e di un danno di reputazione da parte del NHS, ma anche a Upton (che è stato assolto dalle imputazioni) la validità del permesso accordatogli di usare gli spogliatoi femminili, sottolineando però che tali permessi devono dipendere da un’attenta valutazione delle circostanze, e non possono essere considerati uno standard automatico.
Donne significa femmine adulte.
La sentenza è già finita sotto scrutinio in quanto pare che contenga varie irregolarità ed errori, ad es. la definizione di “uomo trans” come un soggetto “assegnato maschio alla nascita”, mentre sarebbe una definizione di “donna trans”, e addirittura citazioni che dovrebbero riferirsi a norme e sentenze, ma appaiono invece false e probabilmente prodotte dall’IA (si veda anche questa analisi in dettaglio). Anche su queste basi, Sandie Peggie ha annunciato che farà ricorso. In effetti, nel Regno Unito la categoria di “donna” è protetta esplicitamente nel senso biologico (lo ha stabilito lo scorso aprile una sentenza della Corte Suprema britannica): da allora con “donne” agli effetti giuridici si intende “donne biologiche”, pertanto spogliatoi, bagni, carceri etc. riservati alle donne sono da intendersi appunto riservati al sesso femminile e non aperti a chi decide arbitrariamente che il proprio “genere” è “donna”, né a uomini con qualsivoglia diagnosi. E infatti, solo pochi giorni dopo la sentenza sul caso di Sandie Peggie, il NHS Fife ha deciso di cambiare rotta e di consentire l’accesso agli spazi femminili solo alle donne, per cui oggi questo processo (costato fior di soldi pubblici, ben oltre 300.000 sterline) non sarebbe nemmeno esistito.
L’intera vicenda appare lunare: se ci sono degli spazi separati riservati ai due sessi, un soggetto deve andare in quelli riservati al proprio, non in quelli riservati all’altro – e il “genere”, qualsiasi cosa sia (una innata essenza metafisica immutabile però fluida, un costrutto sociale, un’autopercezione, un insieme di aspettative e norme sociali, etc.etc…) non entra neanche nel discorso. Gli attivisti arcobaleno sostengono che accordare il permesso a una “donna trans” (a definire la quale dev’essere sufficiente la “autodeterminazione” cioè il giurin giurella del soggetto) di entrare in spazi riservati alle donne è un “idiritti” umano trascendentale inalienabile. Ma ovviamente non ogni esigenza o desiderio personale di ciascuno è un diritto, altrimenti sarebbe il caos. Tuttavia, c’è anche chi, pur non sostenendo che si tratti necessariamente di un “idiritti“, dice comunque che concedere tale permesso è una questione di civiltà ed empatia verso i soggetti con “disforia di genere”, che è una condizione di sofferenza grave e invalidante. Certo, tale condizione esiste (ex-“disturbo di integrità corporea”), ma dentro l'”ombrello transgender” c’è anche altro. Ad es. gli autoginefili, cioè uomini (attratti dalle donne) che provano eccitazione sessuale nel percepirsi, vestirsi, presentarsi come donne; e poi tutta una pletora di altre vaghezze come genderfluid, non-binari, eccetera. E inevitabilmente, gli opportunisti.
La finestra di Overton è spalancata.
In decenni di attività di lobby a vario livello (politico, giuridico, accademico, associazionistico, dei professionisti di settore eccetera) gli attivisti arcobaleno sono riusciti a “depatologizzare” la condizione trans: la classificazione è cambiata nel giro di pochi anni, passando da “disturbo di integrità corporea” a “disforia di genere”, infine al neutro “incongruenza di genere”, per riconoscere il quale non è più indicato come requisito la presenza di una condizione patologica di sofferenza grave e persistente. E attualmente conducono una campagna aggressiva per arrivare all’autodeterminazione totale del “genere” legale: deve bastare il giurin giurella dell’interessat*. Di fatto in molti paesi sono implementate politiche di questo tipo: i cambi di rotta costituiti ad es. dagli “ordini esecutivi” di Donald Trump e dalla decisione della Corte Suprema britannica nascono per intervenire su queste situazioni problematiche e conflittuali. Essendo questo il quadro, la questione non è più limitata a rarissimi soggetti sofferenti, in possesso di una specifica diagnosi. L’attivista arcobaleno vi risponderà che anche in mancanza di tali accertamenti, l’accesso di “donne trans” (cioè uomini) in spazi femminili non pone alcun disagio, minaccia o rischio particolare alle donne, quindi perché proibirlo? E che se una donna si sente a disagio per una situazione del genere, è a causa della sua “transfobia”, magari di origine traumatica, che deve risolvere andando da uno psicologo (ma per il quale intanto può essere denunciata per “odio anti-lgbt”, come spesso avviene in paesi dove vigono tali criteri).
Idee del genere sono il segnale con cui gli attivisti arcobaleno si svelano nella loro natura profonda: è grottesco, oltre che moralmente ripugnante, pensare che se una donna o una ragazzina, in uno spogliatoio o bagno riservato alle donne, prova disagio, disgusto o paura alla presenza di un uomo sconosciuto magari agghindato da donna e con il “pacco” in vista, il problema è suo anziché del tizio e della società che gli ha permesso di entrare lì. E prima che arrivi l’accusa di “fare i cavalieri bianchi”: anche per molti uomini trovarsi una donna di fronte in un bagno o spogliatoio maschile mentre lo stanno usando, per varie ragioni, può comportare un disagio significativo (si vedano ad es. le testimonianze raccolte da Sex Matters in questo survey, pag. 29). Ma purtroppo, il problema non è solo di qualche momento di disagio o paura: è di accrescere il rischio che vengano perpetrati crimini sessuali, a partire da voyeurismo ed esibizionismo, fino ad abusi più gravi. E se nessuna istituzione effettua una ricognizione “ufficiale” di questo tipo di casistica, questo non vuol dire che non esista: sarebbe come dire che la violenza femminile sugli uomini non esiste perché l’Istat non vi dedica indagini e i media non pubblicano report annuali in merito. Tutt’altro: laddove qualcuno fa il lavoro sporco di andare a cercare e verificare i dati, questi sono inequivocabili.