La vicenda del centro antiviolenza Artemisia, cacciato con disonore dal consorzio D.I.Re. – Donne in Rete contro la violenza, ci dà uno spaccato esatto della realtà in cui siamo costretti a vivere da decenni. Di fatto, l’unico atteggiamento maschile tollerato dal femminismo radicale, totalitario e suprematista è quello della sottomissione incondizionata: gli uomini devono cospargersi il capo di cenere, devono percuotersi il petto, recitare il mea culpa pubblico, pentirsi per i reati altrui, vergognarsi di essere uomini e scusarsi con tutto l’universo femminile. È questo il dovere di ogni odiato maschio, chi non lo riconosce è negazionista, è complice, è parte del problema. Magari le femministe sono disposte a tollerare che l’uomo faccia i lavori pesanti, faticosi e pericolosi indispensabili alla collettività, per i quali tuttavia le donne non si sognano di chiedere quote rosa; tollerano che l’uomo rischi la vita per portare il pane a casa, tollerano che vada in pensione più tardi pur avendo un’aspettativa di vita minore, tollerano di essere salvate dallo spalatore quando sono sotto le macerie del terremoto, dal vigile del fuoco quando sono in pericolo, dal carabiniere in tempo di pace e dal marò in tempo di guerra, e poi tollerano di essere soccorse dallo speleologo, dal bagnino, dalla guida alpina, dal sommozzatore. Quando si tratta di salvare la pelle le femminucciste non fanno tanto le schizzinose, un omaccione che rischia la vita per tirarle fuori dai guai è ben accetto e tanti saluti ai proclami “è meglio incontrare un orso”. Ah, tollerano anche di prendersi casa e assegno dall’uomo al momento della separazione, ma è un altro discorso.
Questo, piaccia o meno, accade nella vita reale. Poi nel delirio ideologico è l’odio misandrico a farla da padrone: l’uomo è il Male assoluto, la causa di tutte le storture del mondo, l’oppressore patriarcale che impedisce da millenni alla superiorità femminile di emergere, il regista di una violenza strutturale e di sistema della quale sono vittime tutte le donne del mondo. La donna è autonoma, emancipata, libera e soprattutto talmente indipendente dal maskio che un mondo popolato di sole donne sarebbe migliore. Ma la violenza è l’argomento preferito dal vittimismo tossico, le donne hanno imparato a riconoscersi vittime sempre e comunque, chi non si percepisce vittima lo è ancora di più perché è vittima inconsapevole, ancella del patriarcato. Questi, per sommi capi, i capisaldi del femminuccismo chiagni-e-fotti. Ovviamente ci sono altri argomenti cari alle eredi di Andrea Dworkin e Michela Murgia, dal gender paygap alla sete insaziabile di finanziamenti per i centri antiviolenza, ma il vittimismo è la spina dorsale dell’ideologia tossica rosa. Però le cose stanno cambiando, lentamente ma stanno cambiando e la vicenda di Artemisia si aggiunge a una serie di altri fattori ormai consolidati.
L’eresia del centro antiviolenza “Artemisia”.
Il delirio femminista comincia ad essere vittima delle sue stesse iperboli tossiche, sempre più persone sopportano malvolentieri la narrazione ferocemente antimaschile mascherata da diritti sociali. Comprese le stesse donne, quelle donne che non si sentono rappresentate da chi fa dell’odio antimaschile una Guerra Santa per la nuova religione attorno alla quale raccogliere fedeli adoranti. Sul web si moltiplicano le donne, professioniste di diversi saperi e diverse discipline, che pubblicano analisi critiche del femminismo; tutti i centri antiviolenza che accolgono vittime ambosessi (privati, quelli pubblici non esistono) sono presieduti da donne; l’unico centro che accoglie solo vittime maschili è presieduto da una donna; l’unico assessore alle pari opportunità che ha inaugurato una panchina contro ogni violenza è una donna; la promotrice a Roma dell’unico sportello pubblico di ascolto per vittime maschili è una donna; l’associazione che ha promosso i contestatissimi manifesti di Bologna, la Lega Uomini Vittime di Violenza, è presieduta da una donna; fa eccezione l’avvocato promotore del sito 1523 per offrire assistenza a vittime maschili, ma tutti i soggetti che osano mettere in discussione il dogma femminista secondo il quale ogni uomo sarebbe un carnefice ed ogni donna una vittima, sono uniti da un filo conduttore: divengono calamite di proteste, attacchi sia mediatici che istituzionali, aggressioni non solo verbali, indignazione, polemiche all’insegna del “come vi permettete, con tutto quello che subiamo noi donne!”. E stavolta è toccato ad Artemisia, una di loro.
Artemisia, la grande traditrice.
Il maschio non può essere altro che bersaglio. Il femminismo non tollera alleanze, per sopravvivere ha bisogno del conflitto permanente. E le temerarie di Artemisia che dicono in risposta? «Riconosciamo l’esistenza di un modello maschile positivo», ossia l’affronto più intollerabile per la Guerra Santa; l’infedele è infedele e va rieducato, punto. Rieducare è poco, il nemico è addirittura da decostruire. Deve aderire alla dottrina femminista che impone al maschio pentimento, riconoscimento dei propri peccati e della propria inferiorità rispetto al Genere Eletto, e se non capisce ‘sta dottrina gli va spiegata con la violenza. È la Guerra Santa delle Buone contro i Cattivi, tutto è lecito. Pertanto l’iniziativa di Artemisia è intollerabile, Artemisia diviene un elemento estraneo, di disturbo della Verità e viene quindi espulsa proprio dalle Custodi della Verità, non può più fare parte delle autoproclamatesi Elette. Tutto ciò avviene, secondo D.I.Re., poiché «il collettivo femminista si è costruito e continua a modellarsi attraverso il confronto». Ecco la personalissima concezione femminista di “confronto”: se non ti pieghi al nostro diktat, ti cacciamo. Non è meraviglioso?