Molti mass-media hanno battezzato “Filmopoli” un un sistema di finanziamenti a pioggia al cinema attraverso il “tax credit” allegramente regolamentato nel 2016 dall’allora Ministro della Cultura Dario Franceschini (PD). Si parla di gestione priva di controlli e di finanziamenti a pioggia verso “amici politici” della cinematografia che poi gonfiavano i costi e non rendicontavano un centesimo dei soldi ricevuti. Dopo la regolamentazione voluta da Franceschini, non a caso, le spese per i film italiani sono decuplicate, senza che nessuno andasse a verificarne il motivo. Qualcosa è trapelato, con riferimenti a cachet stellari e giri di denaro poco chiaro, con un danno per l’erario valutato in 4 miliardi di euro negli ultimi nove anni. Il tutto per la produzione di film di scarso o nullo successo, forse anche perché pieni di più o meno esplicita propaganda progressista, secondo quello schema stilistico ormai consolidato per cui non è più importante intrattenere e tanto meno produrre un’opera d’arte: ciò che conta è indottrinare, educare, catechizzare e irregimentare lo spettatore su quei valori radical o woke ritenuti indispensabili da una certa parte politica.
Curioso che questo sistema, su cui ora sta indagando la Guardia di Finanza, sia saltato fuori a seguito di un terribile fatto di cronaca, l’omicidio della compagna e della figlia da parte di Francis Kaufmann. Quest’ultimo aveva tratto profitto dal sistema clientelare favorito dalla regolamentazione di Franceschini e si era intascato nel 2020 ben 863 mila euro di soldi pubblici per produrre un film che poi non ha mai visto la luce. È riuscito in questa sua operazione, secondo le indagini, grazie a un vuoto normativo che permetteva a produzioni internazionali di ottenere crediti senza dover produrre rendiconti o pezze giustificative delle spese. Il tax credit di Franceschini era insomma un bancomat per pochi eletti a carico di chi paga le tasse. Ora il Governo prova a mettere una pezza alla “Filmopoli”, mentre i vari attori e registri del “giro buono”, che traevano profitti dal sistema, gridano subito alla “censura” perché le nuove norme imporrebbero trasparenza, tracciabilità dei flussi finanziari e fatture dettagliate. Cioè quanto di più ovvio e scontato lo Stato dovrebbe pretendere da chi utilizza i soldi dei contribuenti.
I centri antiviolenza come le banche: too big to fail.
Si dirà: ok, ma questo che c’entra con il tema principale delle pagine de “La Fionda”? C’entra eccome. Basta, visto che si parla di cinema, cambiare scenografia e attori, mantenendo la trama identica e si comprendono subito i termini di un’altra anomalia che perdura da molti più anni della citata “Filmopoli”, ossia quella che potremmo chiamare “Violenzopoli”. La mangiatoia cinematografica infatti impallidisce al confronto del sistema ormai rodatissimo con cui si fanno arrivare fiumi di finanziamenti pubblici ai centri antiviolenza (più di 600) sparsi per il paese. Si dirà: il fine è nobile. Ma anche no: siamo il paese con il tasso di violenza “di genere” più basso in Europa e nel mondo, un tasso che negli ultimi dieci anni non è sostanzialmente mutato. Dunque i centri antiviolenza o sono inutili o non assolvono al loro compito, pur ricevendo milioni di euro ogni anno. In sostanza non servono a nulla. O meglio: esattamente come i film finanziati con il tax credit, servono a pagare gli stipendi di chi li fa, senza però che ci siano spettatori o, nel caso dei centri antiviolenza, senza che ci siano “utenti” in proporzioni tali da giustificarne l’esistenza e il flusso di denaro pubblico che a loro viene destinato.
C’è solo una differenza tra i due sistemi clientelari e corruttivi, ed è nella reazione della politica. Di fronte a “Filmopoli” il Governo interviene (a parole) in modo efficace, parlando di voler imporre tracciabilità dei flussi finanziari e rendicontazione tramite fatture quietanzate. Sacrosanto. Ma perché non imporre la stessa cosa anche ai centri antiviolenza? Si aprirebbe il vaso di Pandora e da più di 600 i CAV si ridurrebbero a due o tre. con il fenomeno correlato di molte “coordinatrici” in fuga all’estero con valigetta al seguito, inseguite dalla Guardia di Finanza, tipo Zenigata e Lupin III. Il fatto è che né questo governo né tantomeno un governo di sinistra imporranno mai una misura del genere. Nella mangiatoia dell’Antiviolenza S.p.A. si sfamano tutti, da sinistra a destra, sia in termini finanziari che di clientela elettorale. In più il sistema ha prodotto una tale mole di posti di lavoro da diventare too big to fail, come certe banche americane. E poi c’è la retorica dilagante della “violenza sulle donne sistemica e strutturale“, che va combattuta con (ovviamente) “più fondi ai centri antiviolenza”. Basterebbero pochi numeri ufficiali per far crollare questa retorica e recuperare svariati milioni di euro pubblici all’erario, ma si andrebbe subito incontro a una netta impopolarità mediatica e social, che potrebbe impattare sul gradimento elettorale. Segare le gambe all’inguardabile cinema italiano, per come è totalmente sbilanciato verso sinistra e la woke culture, è una decisione che alla destra paga in termini elettorali. Per scardinare anche “Violenzopoli” serve invece un atto eroico di qualche partito o di qualche giudice. E gli eroi, in questo misero paese di questa miserabile epoca della “cortina di pizzo”, purtroppo scarseggiano.