“Tutte per una”, ma il pubblico non ne può più. Quello è infatti il titolo di un film uscito in Francia e che, indovinate un po’, reinventa i moschettieri di Alexandre Dumas cambiandogli sia sesso che etnia. A difendere la regina Anna d’Austria, moglie di re Luigi XIII, in questa nuova versione, sono tre donne, che prendono il posto dei leggendari Athos, Portos e Aramis. Due di esse, a buon peso, non sono nemmeno francesi: una ha fattezze magrebine e un’altra è di colore (e pure obesa). In una parola, porcheria “woke”, che nel conformarsi ai dettami dell’inclusività, cerca anche di rafforzare il mito del patriarcato: le tre fanciulle, infatti, per poter entrare nel corpo dei moschettieri, sono costrette a mascherare la propria femminilità, indossare baffi e barbe finte. Perché, questo è il sottotesto, altrimenti non sarebbero state accettate. Se non che, dettaglio non trascurabile, ciò accadeva perché le donne in ruoli del genere non sono efficaci, ma soprattutto perché nessuna donna, a quei tempi, si sarebbe mai sognata di impugnare un’arma e svolgere attività così pericolose.
Ma che importa la storia, quand’anche essa sia da sfondo a una storia di fantasia? È solo un fastidioso dettaglio, un inciampo che le forzature odierne, ben alimentate da fondi pubblici, possono superare di slancio (Paola Cortellesi docet). Ed è così che la pellicola, costata dieci milioni di euro, va ad aumentare il mucchio di produzioni simili (l’ultima dagli USA è l’imbarazzante remake di “Biancaneve”) che da tempo ha invaso il mercato, contribuendo attivamente alla morte del cinema, dove non va più nessuno perché il rischio è appunto di imbattersi in spazzatura del genere. Si dirà: aspetta di vedere i dati sugli spettatori, prima di dirlo. Eppure è già stato ampiamente provata la validità del detto get woke, go broke (“diventa woke, vai in rovina”). Serviva un’altra prova? Ebbene eccola qui: a pochi giorni dall’uscita, il film, distribuito in 564 sale, ha assommato 1.271 ingressi. Una media di due spettatori per sala. Due spettatori per sala. Nemmeno la proiezione del video del matrimonio dei vicini attira così poca gente. E sorvoliamo su ciò che la critica ha scritto del film, lo si può facilmente immaginare.
Il disagio nell’inversione dei sessi.
Ciò che è veramente rilevante, in effetti, è la reazione preventiva del pubblico. Qui non si tratta di molte persone che sono andate, hanno guardato il film e successivamente lo criticano ferocemente. Si tratta invece di persone che, in principio, rifiutano di mettere piede al cinema per vedere prodotti che, fin dal manifesto, mostrano di essere stati concepiti non per intrattenere lo spettatore, ma per catechizzarlo, per imporgli modi di pensare e valori. Tanto vale andare in chiesa, che è pure gratis. Occorre però chiedersi i motivi profondi per cui il pubblico diserta queste operazioni ideologiche sovvenzionate. Sicuramente pesa un senso di intollerabile saturazione. Banalmente: la gente non ne può più, dopo vent’anni di isteria. Non è un caso che personaggi contro questa corrente, come Trump o Musk, hanno così tanto successo. Pur se criticabili sotto altri aspetti, rappresentano una boccata d’aria, finalmente ossigeno e non più gas asfissiante. Eppure ormai i fondi pubblici per foraggiare queste porcherie sono stati stanziati, magari anche per i prossimi anni, dunque vanno spesi. Non sarà quindi un singolo insuccesso, ma una complessiva agonia del wokismo, che si porterà nella tomba l’intera industria cinematografica, insieme agli altri danni.
A pesare su questi flop c’è anche la violenza fatta all’opera letteraria di riferimento. “I tre moschettieri” e il loro autore Alexandre Dumas sono per altro particolarmente amati in Francia, quindi è probabile che la forzatura abbia pesato non poco. Ma c’è anche un altro aspetto che attiene alla natura profonda dell’essere umano, che ha inscritto nel DNA la qualificazione propria del maschio e della femmina. Qualunque cosa si allontani da quella qualificazione genera repulsione. Una donna che agisca come un uomo o che finga di essere un uomo (e viceversa per un uomo), non dà il senso di emancipazione, ma dà la stessa sensazione di vedere un uccello che prova a vivere sott’acqua o di un pesce che prova a volare. Nessuna didattica, al fondo della nostra natura, viene tratta da queste produzioni, ma mero disagio, puro fastidio, dissonanza chiara e forte. Che si amplifica quando chi è stata concepita per qualificarsi nella propria essenza (la donna) viene rappresentata a qualificarsi al modo maschile (cioè “facendo”). Per lo stesso motivo è fastidioso vedere donne in uno sport altamente dinamico come il calcio e uomini in uno sport altamente estetico come il nuoto sincronizzato. Alla natura, come al cuore, non si comanda. Lo capiranno una buona volta e a suon di fiaschi totali le femministe e i pupazzi che ancora le sostengono politicamente ed economicamente?