Sono stati assolti i cinque atleti della nazionale junior canadese di hockey accusati di violenza dopo aver fatto sesso con una giovane donna, incontrata in un locale a London, Ontario, durante i festeggiamenti per la vittoria al campionato mondiale. Il caso non è, per struttura, diverso dai tanti casi di accuse false e strumentali di violenza sessuale che hanno costellato la storia del #metoo, o da quelli che documentiamo ogni giorno. Ma la vicenda e il modo in cui la si sta discutendo nel dibattito pubblico sono talmente eccessivi per patente sfacciataggine e paradossalità, da offrire alcuni spunti di riflessione, che proporremo in una seconda parte, anche a chi solitamente non condivide le nostre analisi sul tema. Intanto, i fatti: la ventenne E. M. (la presunta “vittima”, il cui nome non è esplicitato perché la legge canadese tutela l’identità di chi denuncia reati di questo tipo), la sera del 18 giugno 2018, raggiunge alcune colleghe di lavoro in un locale chiamato Jack’s Bar. Poco dopo anche i campioni di hockey junior entrano al Jack’s Bar, tra cui quattro tra gli accusati, McLeod, Hart, Dubé e Foote (il quinto, Formenton, non entra perché minorenne; a differenza della presunta “vittima”, i nomi dei presunti “mostri” vengono tranquillamente offerti al pubblico ludibrio). Tra McLeod e E. M. scatta l’attrazione, così lei accetta di seguirlo nella sua stanza d’albergo e i due fanno sesso in modo reciprocamente consensuale.
Dopo il che succede il fattaccio, almeno secondo quella che è la prima versione raccontata da E. M.: McLeod invita tramite una chat di gruppo i suoi compagni di squadra perché approfittino della situazione, e i cinque abusano di E. M. Dopo la presunta violenza, E. M. torna a casa in lacrime e racconta tutto alla madre, che chiama la polizia. Sia la polizia sia l’istituzione Hockey Canada avviano un’indagine, che però finisce con l’archiviazione nel febbraio 2019: la versione di E. M. è lacunosa, confusa, ammette che avrebbe potuto andarsene in qualsiasi momento, di non essere stata realmente forzata a fare sesso con i cinque ragazzi, anzi di aver inizialmente gradito le loro attenzioni, eccetera. Addirittura ammette che McLeod le ha più volte chiesto, durante la serata, se stesse bene e se volesse continuare, e di aver sempre risposto affermativamente. La vicenda sembrerebbe chiusa lì.

Quattro anni dopo la versione cambia.
Senonché, nel 2022 viene rivelato che la Hockey Canada ha speso quasi tre milioni di dollari in patteggiamenti, nel corso di quell’anno fiscale, per casi di presunti abusi sessuali commessi da propri atleti. Compreso il caso di E. M., per il quale pare che la donna avesse chiesto tre milioni e mezzo di dollari di risarcimento (non è noto quanto abbia effettivamente ricevuto). La notizia suscita una certa attenzione mediatica, così la polizia decide di riaprire le indagini. Ma stavolta la versione di E. M. risulta un po’ diversa: la donna si sarebbe sentita intimorita dall’arrivo inaspettato degli amici di McLeod, e non avrebbe mai acconsentito agli atti sessuali perpetrati – pur soggiacendovi per timore di ripercussioni più violente – durante i quali si sarebbe percepita «come fluttuare fuori dal proprio corpo, osservandolo dall’alto», una tipica rappresentazione della reazione di freezing e dissociazione dal corpo che viene tirata in ballo in questi casi per motivare la mancanza di reazioni da parte della “vittima”.
Nelle parole di Lindsey Ryan, detective incaricato dell’indagine (corsivi nostri, qui e nel seguito): «Nel 2018, la donna incolpava sé stessa, e non era sicura che fosse accaduto qualcosa di sbagliato. Nella testimonianza resa nel 2022, invece, sembra consapevole delle sue reali emozioni e comprende che ciò che è successo in quella stanza d’albergo non è stata colpa sua. Credo che questo cambiamento sia dovuto al fatto di aver avuto quattro anni per riflettere sugli eventi e capire che la propria acquiescenza non equivaleva a un reale consenso». Nel frattempo i media battono sul caso, cresce l’attenzione pubblica, e vengono inscenate addirittura manifestazioni e proteste a favore della “vittima”. Risultato: stavolta i procuratori Cunningham e Donkers portano nel febbraio 2024 i cinque atleti a processo con l’accusa di violenza sessuale. Accusa che costa immediatamente loro una promettente carriera nella nazionale di hockey: la NHL fa sapere infatti a giugno ‘24 che non c’è più l’intenzione di offrire loro un contratto.

Non colpevoli.
Ma il 24 luglio scorso il magistrato Maria J. Carroccia ha emesso il verdetto: non colpevoli. E le motivazioni della sentenza meritano una lettura integrale (le potete scaricare qui). In essa vengono elencati tutti i particolari sulla folle notte di sesso che inchiodano E. M. alle sue responsabilità, e emerge la fondatezza della versione dei cinque ragazzi e di altri loro compagni presenti (ma che non parteciparono al sesso di gruppo), secondo la quale fu la stessa E. M. a proporsi sessualmente, e addirittura in maniera talmente aggressiva da risultare disturbante per alcuni di loro. Ad esempio, secondo il racconto di uno dei ragazzi chiamato a testimoniare al processo, Tyler Steenbergen (pp. 29-31), quando entrò nella stanza d’albergo «dal bagno uscì una ragazza completamente nuda, che di punto in bianco si sedette sul pavimento e cominciò spontaneamente a masturbarsi, dicendo: ‘Qualcuno di voi potrebbe venire a f**ermi?’.
I ragazzi parvero un po’ scioccati da questa uscita, anche Tyler si sentiva a disagio, peraltro alcuni dei presenti erano fidanzati. A quel punto E. M. invitò Hart (uno degli accusati) ad avvicinarsi, lo aiutò a calarsi i pantaloni, poi iniziò a praticargli sesso orale. Ma Hart dopo circa trenta secondi si ritirò e lei disse: ‘Oh, sembrate delle femminucce’, poi passò a McLeod». Carter Hart racconta (p. 37) che «alcuni dei ragazzi erano fidanzati, perciò alla profferta di E. M. si fece avanti lui: ‘mi puoi fare un pom**’ al che lei rispose qualcosa come ‘sì, certo!’ … ‘ma non mi sentivo del tutto a mio agio in quella situazione, al punto che non riuscivo nemmeno ad avere una piena erezione, perciò mi ritirai dopo trenta secondi o poco più, me ne tornai dove stavo prima e mi tirai su i pantaloni’. Al che lei disse ‘ma che problemi avete, ragazzi? Se nessuno mi vuole f**e, prendo e me ne vado!’».
Un eccesso di prove.
A corroborare i racconti dei cinque “mostri” e degli altri testimoni, risultati coerenti tra loro e anche con le testimonianze rese nel 2018, ci sono non uno ma addirittura due video ripresi al cellulare, in cui E. M. afferma esplicitamente il suo consenso a ciò che sta accadendo. «Ma sei paranoico, diosanto» dice a McLeod nel secondo video, «sì, mi è piaciuto, sto bene, sono sobria, è tutto consensuale». Non solo: i video ripresi dalle telecamere del Jack’s Bar smentiscono totalmente la versione di E. M. secondo cui sarebbe stata allontanata dalle sue amiche con l’inganno, forzata a bere più di quanto volesse, e in stato di ebbrezza costretta a contatti fisici non graditi. Dai messaggi scambiati con le amiche nel corso della nottata emerge che più volte queste si sono offerte di raggiungerla per sottrarla a eventuali attenzioni sgradite da parte di McLeod, ma lei ha sempre rifiutato. Le testimonianze dei ragazzi secondo cui fu lei a proporre di invitare altri per fare sesso di gruppo sono corroborate dal primo dei due video ripresi durante la nottata, in cui la si vede entusiasticamente incitare Hart affinché messaggiasse un suo compagno di squadra single, Dante Fabbro, dato che i fidanzati tra i presenti non sembravano disposti ad assecondare le sue brame (p. 37 delle motivazioni alla sentenza).
Peraltro, dettaglio non trascurabile, E. M. era pure fidanzata all’epoca dei fatti. Nel corso degli interrogatori la donna ammette l’imbarazzo e il senso di colpa provato nei confronti del proprio boyfriend per la notte di sesso folle con McLeod e i suoi amici, e il timore che l’accaduto potesse intaccare il loro rapporto. Fu proprio il fatto – come ammise agli investigatori – di essersi presentata come vittima delle circostanze, troppo ubriaca e intimorita per poter reagire, a suscitare l’empatia del fidanzato e salvare il loro rapporto (pp. 17-18). Insomma: sembra un caso in cui, al posto del solito conflitto tra versioni diverse non verificabili e la consueta “insufficienza di prove”, c’è addirittura un eccesso di prove ad attestare che si sia trattato di uno scambio totalmente consensuale, e perfino un possibile “movente”, che può aver spinto inizialmente la donna a raccontare ai propri intimi una versione distorta dei fatti. Ma allora, come ha fatto l’accusa a sostenere la tesi della violenza sessuale su queste basi? E com’è possibile che questo caso animi tanto l’opinione pubblica in favore di E. M.?…