I diritti riproduttivi femminili sono da sempre parte integrante e fondamentale del discorso femminista. La ministro per le Pari Opportunità svedese, Åsa Regnér, ha dichiarato: «Ho un’esperienza globale del femminismo e credo che ragazze e donne vogliano le stesse cose: poter scegliere se avere figli o no… Questi sono diritti. Il discorso sui diritti umani non è una minaccia». Diritti umani che vengono, naturalmente, ostacolati dagli uomini, dal Patriarcato. Pete Buttigieg, politico statunitense e candidato alle primarie del Partito democratico: «L’uguaglianza delle donne è libertà, perché non si è liberi se le decisioni riproduttive sono prese da politici maschi o da superiori maschi».. Sulla stessa linea la giornalista Rula Jebreal a Sanremo, febbraio 2020: «Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne». E così all’infinito in un elenco interminabile di proclami simili, riassunti in maniera cristallina dal popolare slogan femminista spagnolo «Nosotras parimos, nosotras decidimos» (Noi partoriamo, noi decidiamo), più incisivo, a mio parere, di quello corrispettivo italiano «l’utero è mio e lo gestisco io». Se ne deduce, da questi discorsi, che sulla riproduzione gli uomini non hanno diritti e quindi non sono liberi, conclusioni logiche ineccepibili che sono, come spesso succede, in contraddizione con il discorso femminista che vittimizza in esclusiva le donne.
Nel 1981 la leader femminista Karen DeCrow, membro della National Organization of Women (NOW), la maggior organizzazione femminista degli Stati Uniti, assunse il ruolo di avvocato difensore di Frank Serpico, l’ex detective di New York e informatore, in una causa di paternità. Serpico sosteneva che la querelante lo avesse usato come una “banca del seme” e avesse mentito sull’uso della pillola anticoncezionale mentre cercava consapevolmente di rimanere incinta, affermando inoltre di avere un diritto costituzionale a non diventare padre contro la propria volontà. In un primo momento, il giudice del tribunale familiare, una donna, si pronunciò a suo favore, ma Serpico perse in appello. Secondo DeCrow «l’unica posizione femminista logicamente coerente» era quella di difendere che uomini e donne avessero gli stessi diritti. «Così come la Corte Suprema ha affermato che le donne hanno il diritto di scegliere se diventare o meno genitori, anche gli uomini dovrebbero avere questo diritto», dichiarò al New York Times. Purtroppo le sue compagne di viaggio nella lotta per la liberazione delle donne non furono d’accordo. La strategia difensiva di DeCrow fu denunciata come «quasi una classica rappresentazione antifemminile: le donne che seducono e intrappolano gli uomini con le loro arti femminili». In una lettera al Times del 1982, DeCrow scrisse che, poiché gli uomini non hanno alcun potere legale per impedire o imporre un aborto, è giusto che non debbano pagare per la decisione unilaterale di una donna di portare a termine una gravidanza: «O, per dirla in altro modo, le donne autonome che prendono decisioni indipendenti sulle loro vite non dovrebbero aspettarsi che siano gli uomini a finanziare tale scelta». La conclusione finale di tutta questa vicenda fu che Serpico perse la causa, DeCrow finì per far parte dei movimenti dei diritti maschili a favore dell’affidamento condiviso nelle separazioni e del diritto di disconoscimento della paternità e il movimento femminista continuò a non avere la minima idea di cosa significasse l’espressione «logicamente coerente».

Quando l’utero non c’entra più.
E così, arrivati ad oggi, continuano a essere gli uomini, non le donne, quelli che nell’ambito dei diritti riproduttivi non hanno né diritti né sono liberi, in perfetta antitesi con la narrazione dominante. E questo succede indipendentemente che ci sia di fatto un “utero” coinvolto o meno. Prendiamo come esempio il parto in anonimato, cioè il diritto concesso alla donna di non riconoscere il neonato appena partorito e di disporre così l’adozione a terzi. Sull’altra sponda, le norme internazionali stabiliscono che conoscere le informazioni relative alle proprie origini biologiche sia un diritto inalienabile delle persone. Così, la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo” del 1989 all’art. 7, e la “Convenzione de l’Aia sull’adozione internazionale” del 1993 all’art. 30, introducono il diritto di qualsiasi persona adottata ad accedere alle informazioni concernenti le proprie origini biologiche e quindi alle informazioni relative ai propri genitori naturali. Questo diritto, in Italia (e negli altri paesi occidentali), non si applica agli adottati che non siano stati riconosciuti dalla madre. Il diritto della donna di partorire in anonimato prevale sui diritti umani dei figli, che non potranno mai conoscere le proprie origini biologiche. Inoltre, in queste norme, leggi, disposizioni non viene mai menzionato il padre. La dichiarazione di adottabilità fatta dall’Ufficiale di stato civile non tiene conto della disponibilità o meno del padre naturale di farsi carico del proprio figlio, in violazione dei diritti dei padri e dei diritti dei fanciulli, ai quali viene impedito di crescere con il genitore naturale. In altre parole, la volontà della madre, che dispone l’adozione del neonato, si impone sulla volontà del padre e sulla volontà del figlio, anche quando il figlio è già nato e fuori dal corpo della donna. Il bambino è già uscito dall’utero! L’argomento femminista, il corpo è mio, l’utero è mio, noi partoriamo, bla bla bla… qui non ha alcun senso, eppure anche in questi casi si impone la volontà della madre.
Parimenti per quanto riguarda gli embrioni creati con il coniuge e poi congelati. Alla donna viene concesso il diritto di utilizzarli contro la volontà dell’ex marito che, dopo la nascita, avrà l’obbligo di provvedere, a norma di legge, al mantenimento del figlio e conseguentemente anche della ex moglie. Anche qui, cosa c’entra l’utero o il corpo della donna? I diritti paterni esistono unicamente quando non vanno in conflitto con la volontà della madre. Ad esempio, quando c’è un errore medico, che «mina, di fatto, il diritto costituzionale all’autodeterminazione e, quindi, anche la scelta di non procreare», per una sterelizzazione fallita. Naturalmente si tratta dell’autodeterminazione della volontà materna, ma che nella coppia colpisce anche la volontà paterna, che combaciava con quella materna. Si tratta di una paternità non voluta che merita il risarcimento, al contrario delle medesime paternità imposte a migliaia e migliaia che «minano il diritto costituzionale all’autodeterminazione» degli uomini, ma rese obbligatorie per volontà materna. O quando c’è una diagnosi tardiva di un handicap sul feto, che impedisce alla gestante di abortire. Anche qui il padre merita il risarcimento, per non essere stato in grado di scegliere se abortire (?). Se invece la stessa diagnosi arriva in tempo, e la madre decide unilateralmente di portare avanti la gravidanza, contro la volontà del padre, nessun risarcimento al padre è dovuto. Anzi, questo padre avrà l’obbligo di provvedere, a norma di legge, al mantenimento del figlio, in maggior misura, dato che il figlio ha un handicap. Oppure per scambio di bambini alla nascita all’ospedale, o per un errore medico durante il parto che porta alla morte del figlio. Anche in questi casi il padre merita un risarcimento, perché è stato privato della possibilità di crescere il figlio, al contrario delle numerose migliaia di padri ai quali vengono sottratti i figli o ostacolati nella loro frequentazione e, nella medesima situazione, non possono parimenti crescere i figli, per volontà materna.
Una mera questione di soldi.
Qual è il nesso tra i diritti riproduttivi e l’industria del divorzio? I soldi. Se dalla mancanza di diritti riproduttivi maschili non scaturissero degli obblighi economici nei confronti degli uomini, molte delle controversie legali e delle istanze dei movimenti maschili non esisterebbero nemmeno. Intanto, la maggior parte delle false paternità e delle paternità con inganno, come quella di Serpico, sparirebbero ipso facto. In Italia, la Cassazione ha già stabilito che, anche quando la donna inganna o mente allo scopo di rimanere incinta, è dovere dell’uomo tutelarsi per evitarlo, utilizzare il preservativo o prendere ulteriori precauzioni. In pratica, la donna può mentire sulla propria fertilità, rassicurare falsamente il compagno di essere lontana dai giorni dell’ovulazione o, magari, di aver preso la pillola, o di essere sterile, o perché no, può bucherellare il preservativo (se invece è l’uomo a bucherellare il preservativo, si tratta di stupro – la donna può decidere di ritirare retroattivamente il consenso del rapporto sessuale per questo motivo –, punito con 4 anni di carcere). Da questi raggiri femminili scatturiscono obblighi maschili. L’asimmetria delle norme riproduttive, la parzialità dei tribunali del divorzio, l’impunità della quale godono le donne per i loro comportamenti, promuovono una disonestà femminile sistemica dalla quale gli uomini non hanno gli strumenti legali per poter difendersi. Lei falsifica la firma e si fa inseminare in vitro con lo sperma del marito, senza il suo consenso, sottrae il figlio al padre, lo porta all’estero e lo ricatta se vuole vederlo; lui invece è obbligato a versare l’assegno alimentare per un figlio che non può vedere. Uomini disorientati e indifesi (e incazzati), donne supertutelate e ormai senza alcun principio morale.
Donne che per vendicarsi, rivelano di aver fatto credere al loro uomo di essere il padre, senza che ci siano per loro delle conseguenze, di fronte allo sgomento di colui che finora, per due anni, si era creduto il padre. Durante il Medioevo, la legislazione delle Siete partidas nel regno di Castiglia stabiliva che la legittimità dei figli nati all’interno del matrimonio si presumeva sempre, salvo nel caso di assenza ininterrotta del marito: la nascita doveva avvenire dopo sei mesi e un giorno dalla celebrazione del matrimonio, e prima di dieci mesi e un giorno dalla morte del padre. È completamente assurdo che, al giorno d’oggi, le paternità vengono ancora regolate, circa, alla stessa maniera dai codici civili occidentali, malgrado l’esistenza da decenni dei test di paternità e il loro bassissimo costo. È incomprensibile che nessun paese abbia emanato una normativa che promuova la realizzazione obbligatoria di questi test alla nascita e anche successivamente su richiesta, e così le false paternità dilagano (in Spagna 3 su 10 test rivelano una falsa paternità). D’altra parte, i test di paternità valgono poco se i tribunali sentenziano che anche da separati e malgrado il test di Dna provi di non essere il padre, l’uomo ha l’obbligo di mantenere i figli perché prevale come interesse superiore la tutela dei minori. Lo stesso interesse superiore e la stessa tutela che non si applicano nel parto in anonimato. Incomprensibile?, forse; «logicamente incoerente»?, può darsi; ma la ragione si trova… basta “seguire i soldi”.