Veniamo alla seconda “ricerca” woke che vi propongo come esempio dei deliri che questi spacciano per scienza. Trattasi di un paper fresco fresco pubblicato su Feminist Theory vol. 26(2), 2025, parte di un progetto di ricerca pagato 67.000 dollari canadesi (circa 42.000 euro, ovviamente fondi pubblici) dal Social Sciences and Humanities Research Council, ente statale canadese per la promozione della ricerca sociale e umanistica. Autrice principale è Celeste Orr: pronomi they/them, laureata in Studi culturali e teoria critica, Ph.D. in Feminist and gender studies e docente di queste stesse discipline, è autrice di ricerche sulla “gioia intersex” e del volume Cripping intersex (Handicappando l’intersessualità) in cui «indaga come l’intersessualità e l’interfobia si intersechino con la disabilità e l’abilismo» e «sviluppa un ambito di ricerca del tutto nuovo, i crip intersex studies (studi handicap-intersex)». Il paper in esame si intitola: “I’ve grown fearful of any rustle behind me”: defining anticipating discriminatory violence as violence (“Sono arrivato ad avere paura di ogni fruscìo dietro di me”: definire l’aspettativa della violenza discriminatoria come violenza) e inizia testualmente così: «Il poeta, scrittore e performer razzializzato trans non-binario Alok Vaid-Menon ha scritto: ‘Non riesco a uscire di casa senza temere per la mia sicurezza’. Analogamente, Vivek Shraya, donna trans» (cioè uomo) «di colore, musicista e artista, ha scritto un intero libro intitolato Ho paura degli uomini sulla propria paura della violenza maschile, con tutte le situazioni di vita quotidiana in cui ha paura degli uomini, ad es. camminando per la strada, sul trasporto pubblico, e così via: ‘Sono arrivato ad avere paura di ogni fruscìo dietro di me’».
Pronti a tornare nella tana del queerconiglio?… Cuore della “ricerca” è la tesi per cui aver paura di subire “violenza discriminatoria” implica già l’aver subìto una forma di violenza. Per sostenerla gl* autor* cercano di smontare due “miti”: che si possa parlare di un gesto, o crimine, violento solo per atti intenzionali, e agiti da un autore specifico. La premessa è che «Studi recenti di teoria femminista, teoria decoloniale e critica sulla disabilità sostengono che la minaccia di violenza è implicita nella vita quotidiana dei soggetti appartenenti alle minoranze oppresse» (cioè, al solito, chiunque tranne il “maschio bianco etero-cis”) «Vivere nel presente regime Occidentale suprematista bianco, capitalista, cis-etero-patriarcale, abilista, interfobico e salutista rende la quotidianità stessa per questi individui un luogo di trauma e violenza». Pertanto, «Se un gruppo di soggetti marginalizzati percepisce collettivamente un’aspettativa di violenza – ad es., donne/ragazze che temono di subìre violenza da ragazzi/uomini; persone 2SLGBTQI+ che temono violenze da soggetti cis-eterosessuali; persone razzializzate che temono la violenza dei bianchi … è evidente che la violenza è già avvenuta».

La “violenza anticipatoria”: sono paranoic*, ergo ho subìto violenza.
Questo implica un allargamento sostanziale della definizione di “violenza”: «Il timore di subìre violenza discriminatoria rivela che la violenza è già in atto tutto intorno a noi, nei modi apparentemente più innocui … La definizione tradizionale di violenza si concentra su atti che causano danni fisici, escludendo le forme più sottili, ma ugualmente dannose, in cui la violenza si manifesta nella vita quotidiana. Riconoscendo che la violenza può essere agita e subìta tramite azioni apparentemente minute e innocue, ideologie e discorsi, possiamo affrontare in modo più completo lo spettro del danno subìto dalle comunità marginalizzate … Se si considera violenza solo ciò che è agito da un agente unico e discernibile, e in un singolo momento preciso, si nega la violenza dei sistemi di oppressione, e si disconosce la cultura della violenza discriminatoria che i soggetti marginalizzati devono affrontare ogni giorno». Allargando così tanto la definizione di violenza, finisce che le vittime spesso non si rendano conto di essere vittime, e debbano essere istruite in merito: «dato che non c’è un perpetratore univoco, risulta spesso difficile per alcuni rendersi conto della violenza subìta o che stanno subendo» (noi di LaFionda.com abbiamo già fornito uno strumento importante all’uopo: il Corso di Violenza di Genere, che vi rende in grado di riconoscere qualsiasi forma di violenzadigenere® e perfino di inventar… ehm, scoprirne sempre di nuove!).
Ovviamente, tutto questo discorso vale solo per le “minoranze oppresse”. Se è un “maschio bianco etero-cis” a paventare le intenzioni violente di certe “comunità”, ad es. la “violenza rivoluzionaria” woke, non si tratta di “violenza anticipatoria”, anzi in tal caso pure questo è un meccanismo di oppressione: «La nostra concettualizzazione della violenza anticipatoria non è intesa a validare qualsiasi forma di violenza anticipata, bensì è specificamente limitata a quella esperita dai soggetti marginalizzati, costretti dentro sistemi di oppressione che li svalutano, e cercano di danneggiarli o di sterminarli (sic). Sottolineiamo questo punto, perché i soggetti privilegiati e detentori del potere» (cioè i “maschi bianchi etero-cis”) «usano sventolare lo spauracchio della violenza anticipata per mantenere lo status quo del sistema di oppressione, e tenere i gruppi oppressi “al loro posto”». In sintesi: se fai parte di una “minoranza oppressa” e ti senti in pericolo a ogni minimo rumore dietro di te, vuol dire che stai subendo “violenza anticipatoria”, da imputarsi al “sistema oppressivo” – agli autori non viene minimamente il dubbio che c’entri qualcosa la propaganda terroristica fatta dai loro simili, ad esempio, mercè l’“attivismo dei dati”, su certe “emergenze nazionali” e certe “mattanze e genocidi” che esistono solo negli incubi woke.
La scienza degli incontri su Grindr.
Mentre se fai parte della categoria dei privilegiati e oppressori, cioè sei un “maschio bianco etero-cis”, e sollevi il problema dell’oscurantismo, intolleranza e violenza di matrice woke, lo stai facendo solo per perpetuare il tuo privilegio e continuare indisturbato a opprimere donne, persone di colore e arcobaleni (inutile dire che questo doppio standard è ciò che ogni proposta di legge sui “discorsi d’odio” di matrice woke, come il Ddl Zan, è programmaticamente tesa a formalizzare). Questa tesi sarà di certo sostenuta da solidissime indagini empiriche, verificabili e replicabili? Ovviamente no. In tutto il paper non troviamo neanche un singolo esperimento o dato, e nemmeno riferimenti storici documentati: c’è solo un elenco di riferimenti a studios* femminist* o queer i quali “dicono che”, “hanno teorizzato che”, “formulano così e così”, “postulano che”, “riconcettualizzano in termini di”, oppure riferiscono vissuti e sentimenti personali. Come abbiamo visto nella parte precedente, infatti, nell’epistemologia woke la “posizionalità” e l’“esperienza vissuta” (ma solo delle “categorie oppresse”) sono forme valide di conoscenza “scientifica” e anzi ben più valide rispetto alle indagini quantitative e empiriche e ai protocolli scientifici “tradizionali”, che sono prodotti, e strumenti, del potere egemonico patriarcale e della cultura oppressiva.
Non è un’illazione, gli autori anche in questo caso lo confessano senza alcuna vergo- ehm, lo spiegano esplicitamente: «Il paradigma teoretico che useremo come lente per la nostra analisi, detto ‘plug in’, informa la nostra metodologia. Nell’intento di contrastare i tradizionali metodi quantitativi, Jackson e Mazzei concettualizzano il ‘plugging in’ come un processo di ricerca qualitativa … strutturato su molteplici incontri, non con un singolo insieme di dati, ma anche con ‘idee, frammenti, teorie, sé, sensazioni’. Il nostro metodo di analisi, perciò, ‘pensa con la teoria’ degli studi femministi, antirazzisti e queer sulla violenza». Tutto chiaro? Ad esempio viene citato come evidenza scientifica un episodio personale raccontato da Joshua Whitehead (identità di genere: “two-spirit”, pronomi they/them, narrator*, poet* e docente di letteratura inglese e “studi indigeni” all’Università di Calgary): «Whitehead raccontano in dettaglio un incontro sessuale con un uomo trovato su Grindr» (app di incontri omosex) «che, alla fine, li ha lasciati ‘a pezzi e in lacrime nella loro sciarpa sporcata’. Questo racconto personale chiede al lettore di riconoscere la lotta intima di Whitehead contro molte spade che interagiscono tra loro: quale persona indigena ricolma di desiderio queer, Whitehead sono costretti a sentirsi uno straniero, nello stato coloniale di Calgary dove risiedono, dal razzismo, dalla bianchezza e dalla mascolinità egemonica che domina la comunità queer locale». Pura scienza.
Il ricercatore woke è nudo.
D’altra parte gli studiosi woke hanno coniato una intera “metodologia di ricerca” basata su ricordi, esperienze, sensazioni e impressioni personali: ma anziché chiamarla “diaristica”, o “autobiografia”, la chiamano “autoetnografia”, e così diventa scienza. Per dimostrare ai lettori che non me lo sto inventando, ne cito un esempio recente. Anilenia Hernandez, laureata in studi femministi e di genere, è dottoranda in psicologia clinica (quindi, idealmente, lavorerà con dei pazienti…) e membro del “Team di Ricerca in Psicologia per la Giustizia Sociale” della Point Park University. Come parte della sua dissertazione di dottorato Hernandez ha presentato la “ricerca” intitolata Breve storia del mio corpo e del suo genere: un’esplorazione autoetnografica della corporeità trans, queer e cubana. Merita citare l’incipit dell’abstract: «Ciao, caro. Benvenuto. Quanto segue è un carnale disvelamento, balbettìo e flusso sulle intersezioni del mio genere, etnia e sessualità. È il racconto di un corpo attraverso quattro città, in cinque parti, in forma di autoetnografia. Il primo capitolo, ‘Il genere come (metodologica) overture’, spiega perché questo progetto è artisticamente, personalmente, e socioculturalmente importante…». Come dicevo, un tempo si chiamavano autobiografie o poesie beat, ora valgono come dottorati in psicologia clinica. (Se volete farvi altre quattro risate potete trovare un lungo estratto qui.)
Tornando al paper di Orr et al., va sottolineata l’inquietante potenziale intersezione tra la definizione di violenza allargata a quella “anticipatoria” e l’attuale battaglia di UN Women (l’ufficio ONU dedicato specificamente alle donne) contro la “violenza digitale”: se anche il timore della “violenza digitale” fosse considerato violenza in atto, si potrebbe avere una giustificazione per silenziare qualsiasi sito o account considerato partecipe della “cultura discriminatoria” sistemica, e imputare i responsabili di “violenza”… Se pensate che le ricerche qui presentate siano bizzarrie isolate, ricredetevi: esse esemplificano con precisione premesse, metodi e teorie standard della cultura woke, che macina “studi” e “scienza” di questo tipo da decenni, da Simone De Beauvoir a Mary Koss e Judith Butler, da Jacques Derrida a Robin DiAngelo e Kimberlé Crenshaw. In effetti, è precisamente a questo tipo di “studi” che si riferiscono i woke quando vi dicono che cose come la “piramide della violenzadigenere®”, la “cultura dello stupro”, i sessi come costrutti sociali arbitrari, le “identità di genere”, la “mascolinità tossica” etc. sono dimostrate da “decenni di ricerca scientifica”. E che per poter esprimere un’opinione in merito, dovete andare a studiare…