La storiografia femminista ha a lungo denunciato il doppio standard sessuale come una delle ingiustizie più radicate nelle strutture patriarcali. Nelle società patriarcali gli uomini sono incoraggiati o tollerati nell’avere comportamenti sessuali liberi, mentre le donne vengono condannate o stigmatizzate per gli stessi comportamenti. I termini adulterio e lapidazione sono inesorabilmente legati nell’immaginario collettivo alla condizione storica femminile. Secondo la narrazione femminista, mentre l’adulterio maschile è sempre stato tollerato, l’adulterio femminile è considerato una grave infrazione. Sexual Politics (1970) di Kate Millett, classico della letteratura femminista, è una delle prime opere ad analizzare la politica sessuale come strumento di dominio patriarcale. Già il titolo rappresenta da solo una vera dichiarazione di intenti: l’opera denuncia l’uso della sessualità come mezzo di oppressione e controllo maschile, e la tolleranza per la promiscuità maschile contrapposta alla repressione della libertà femminile. In questo intervento cercherò di smentire questa visione monolitica, che molto spesso non trova riscontro nella realtà storica. A questo scopo mi servirò di un libro della scrittrice Natalia Ginzburg (1916–1991), La famiglia Manzoni. Non si tratta di uno studio di genere né di sessuologia, si tratta di uno studio storico-biografico, dove l’autrice narra le vicende della famiglia Manzoni. L’autrice compone il libro attraverso diari, lettere e memorie autentiche, intorno naturalmente alla figura dello scrittore Alessandro Manzoni (1785-1873), e di tanti altri personaggi in rapporto con la famiglia Manzoni, alcuni dei quali hanno fatto la storia della letteratura: Cesare Beccaria, i fratelli Verri, Madame de Staël, Massimo d’Azeglio, Claude Fauriel… Mi limiterò perlopiù a trascrivere dal libro (Einaudi editori, Torino, 1983) le citazioni testuali, corsivi miei.
Intanto, gli esempi di libertà sessuale delle donne della famiglia Manzoni, non si discostano affatto di un comportamento femminile abbastanza diffuso in Europa durante l’Ottocento: «…quando si leggono le biografie di molte delle artiste illustri del XVIII e del XIX secolo (Sofia Mereau, Dorotea Schlegel, Meta Liebeskind, George Sand, Louise Colet, Carolina Schlegel, Teresa Heyne, Madame Récamier, la signora di Krüdener, Lou Andreas-Salomé, Ida Hahn-Hahn, Mary Wollstonecraft, ecc.), colpisce in maniera inaspettata il comportamento libero e libertino della maggior parte di loro: ora mi sposo, ora lo lascio, ora mi separo, ora ho un amante, ora ne ho diversi, ora convivo, ecc. Queste donne si separano, e ottengono per via giudiziale le proprietà, la custodia dei figli, cospicue pensioni, donne libere e libertine in una società libera e libertina. Le loro vite, raccontate tramite le loro epistole, poesie o biografie, riferiscono di un mondo in completa antitesi rispetto a quello narrato dalla storiografia femminista» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, a p. 914). Iniziamo dunque dalla madre, Giulia Beccaria. Alessandro Manzoni nacque da Giulia e, molto probabilmente, da Giovanni Verri (fratello minore di Alessandro e Pietro Verri), che sarebbe stato il padre naturale, malgrado Alessandro fosse stato riconosciuto come figlio legittimo da Pietro Manzoni, che era sposato con la madre. Giulia aveva avviato una relazione già nel 1780 con Giovanni, uomo attraente e libertino, di diciassette anni maggiore di lei, che aveva proseguito anche dopo il matrimonio con Pietro Manzoni. Dunque, Pietro Manzoni sarebbe stato in realtà il patrigno di Alessandro Manzoni, colui che lo riconobbe legalmente e diede il cognome.

Un turbinio di amanti.
Dopo la nascita di Alessandro Manzoni, sempre sposata con Pietro Manzoni, «Giulia era però stanca di Giovanni Verri e lui era stanco di lei. essa ebbe una relazione con un certo Taglioretti» (p. 8). «Carlo Imbonati era appena tornato in Italia quando lui e Giulia s’incontrarono . Diventarono amanti. Giulia prontamente decise di separarsi dal marito. L’amore le dava forza e desiderio di chiarezza. Quando era legata a Giovanni Verri non aveva pensato a chiedere la separazione, sentendosi senza sostegno né morale né materiale, e sentendosi contagiata dalla mollezza dell’altro» (p. 9). Dal 1795 fino alla morte di Carlo nel 1805, Giulia e Carlo convivranno assieme. Manzoni onora l’amante della madre e per l’occasione scrive il carme In morte di Carlo Imbonati. «Don Pietro Manzoni fece allora un tentativo per trattenere a sé la moglie. Per il fatto ch’egli non apparteneva all’alta nobiltà, essa lo disprezzava; egli allora convinse i fratelli a muovere un’istanza per essere ammessi nel libro d’oro del patriziato. L’istanza fu respinta. Il rifiuto comunque gli giunse quando Giulia già se n’era andata di casa. La separazione fu accordata dal giudice, nel febbraio 1792; Don Pietro Manzoni s’impegnava a versare alla moglie duemila lire al trimestre» (p. 10). «Don Pietro, triste e solitario, contemplava insieme la fine del su matrimonio e la fine d’un epoca» (p. 11). In breve, dopo diversi amanti, il “sostegno materiale” è un motivo di peso che spinge Giulia a separarsi, lei ci tiene alla classe sociale, “disprezza” perciò il marito, al quale viene imposta la volontà di lei di separarsi e l’obbligo di versare a suo favore un assegno, pur abitando nel frattempo con l’amante. Il marito resta «triste e solitario», insomma il noto Patriarcato.
Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni, era figlia di Teresa de Blasco e di Cesare Beccaria, noto giurista e letterato. A proposito quindi della nonna e della sorella del nonno di Manzoni, «Teresa divenne amante d’un ricco, certo Calderara. Un amico di casa era Pietro Verri, economista, filosofo, amante d’una sorella di Cesare » (p. 7). A proposito di altre donne, amiche di famiglia, «le persone più care che avevano in Francia, lei e Imbonati, erano due che vivevano insieme, come loro, senza essere sposati, Claude Fauriel e Sophie de Condorcet » (p. 12). «Vedova, Sophie de Condorcet per mantenere la figlia, la sorella e una vecchia governante, andava ogni giorno alle carceri e faceva il ritratto ai condannati alla ghigliottina. Riebbe in parte i beni confiscati. Conobbe Claude Fauriel un giorno mentre passeggiava per il Jardin de Plantes […]. Essa lo soffiò a Madame de Staël, con la quale egli aveva una relazione in quel periodo» (p. 12). «Sophie de Condocet visse con lui vent’anni, ma non volle sposarlo, perché egli non era nobile e apparteneva a una classe inferiore alla sua» (p. 13). In pratica, Sophie sdegnava Claude per lo stesso motivo per il quale Giulia sdegnava il marito Pietro Manzoni, erano di classe inferiore. «Fauriel arrivò a Milano […]. Le due signore inglesi presero alloggio alla Pension suisse. Erano madre e figlia e si chiamavano Clarke; con la figlia, Mary Clarke, Fauriel aveva una relazione amorosa, che era cominciata qualche mese prima che Sophie morisse. Mary Clarke aveva allora ventinove anni» (p. 70). «I rapporti fra Mary Clarke e Fauriel erano iniziati così: Mary Clarke aveva scritto a Fauriel pregandolo di posare per lei; quel ritratto che voleva fargli, intendeva regalarlo ad Augustin Thierry […]. Con Augustin Thierry, essa aveva avuto una relazione, a cui desiderava metter fine» (p. 71).

Dov’è il doppio standard?
A proposito di Giulietta, figlia di Manzoni, «Massimo aveva anche abitato lungamente a Roma; qui aveva avuto un legame amoroso con una signora, la contessa Morici, dalla quale aveva avuto una figlia, la piccola Bice; la contessa poi l’aveva piantato; egli ne aveva sofferto» (p. 112). «Passata meno d’una settimana, all’offerta di matrimonio Giulietta rispose di no. » (p. 117). «Giulia, la nonna, aveva insistito con Giulietta perché accettasse. Era la sua nipote più cara […]. Quel d’Azeglio le pareva pieno di seduzione; non poteva darsi pace all’idea che si dileguasse; […]. Non si arrese; continuò a insistere. Essa era in casa la persona più autorevole; ed era nei suoi suggerimenti, calda, impulsiva, incauta e spericolata. […] Quanto a Giulietta […] si persuase. Così, a Manzoni toccò il compito di scrivere a d’Azeglio una nuova lettera…» (pp. 117-118). In pratica, la nonna Giulia, che era «la persona più autorevole in casa», muoveva i fili dietro le quinte per combinare il matrimonio di sua nipote. Giulietta morì dopo qualche anno e Massimo rimase vedovo; sposò in seconde nozze Luisa Maumary , matrimonio che non durerà. «Tante Louise e il marito, Massimo d’Azeglio, da due anni erano divisi» (p. 205). «Secondo Vittoria , la tante aveva in mente sempre e soltanto il marito . Ma lo aveva oppresso con le sue gelosie. Egli usava chiamarla “Inquisizione di Spagna”, e la “scansava”» (p. 214). In pratica, all’interno del matrimonio la moglie, Luisa, opprimeva il marito.
A proposito di altre donne, «nel 1797, muore Pietro Verri […]. Quanto al fratello Giovanni Verri, se n’era andato a vivere a Belvedere sul lago di Como, con la sua amante, certa signora Curoni, e il marito di lei» (p. 11). «Nel 1887, Stefano si sposò. Viveva con Elisa da lunghi anni» (p. 337). In conclusione, dalla fotografia della famiglia Manzoni vengono fuori donne che convivono senza sposarsi e decidono di non farlo, che stroncano relazioni, «piantano» i loro compagni sentimentali o declinano offerte di matrimonio, in disaccordo con i genitori. Insomma, donne libere. Da queste biografie è difficile riscontrare l’esistenza di un doppio standard sessuale. Anzi, da queste biografie si fa fatica a stabilire una netta differenza tra il comportamento di queste donne dell’Ottocento e il comportamento delle donne libere d’oggi, dopo la conquista della liberazione sessuale.