La Fionda

Dammi tre parole

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Questo articolo originariamente doveva essere incorporato in quello precedente, ma visto che mi ero dilungato persino più del solito l’ho suddiviso in due parti. Questo per spiegarvi che, nel momento in cui scrivo e che precederà di molto quello in cui i miei venticinque lettori e ventisei detrattori lo leggeranno, gli eroi che tirano disinteressatissimamente la volata a tutti noi gay discriminati sono in Ungheria per la sfilata del pride “proibito”. Sono talmente oppressi, talmente orbati dei loro diritti e talmente, assolutamente non privilegiati che possono addirittura presentarsi in massa in un paese straniero per violare una legge nazionale senza subire alcuna conseguenza. Per carità, ben venga, non sono affatto un feticista della “legalità”, e come ho già detto Orbán mi è simpatico come un orgasmo interrotto. Ma…

Mi sta benissimo la disobbedienza civile e tutto (anche se il povero Thoreau non ha fatto esattamente una bella fine), e tra i tanti posti in cui un pride può ancora servire è proprio quello. Certo, Zan, Schlein, Scalfarotto, Calenda e qualche altro carneade al seguito non lo fanno mica gratis: tutti hanno parlato di loro e di quanto sono coraggiosi a farsi le foto in gita a Budapest pittati in faccia coi colori dell’aMMore; com’è fotogenico stare dalla parte “giusta” della storia. Ma oggi sono buono, e non dirò “provate a farlo anche a Gaza o in Iran o in Yemen”, visto che in questo momento (scusate la battuta, ma io posso, voi no) hanno altri cazzi per il culo. Ma magari in Arabia Saudita, Pakistan, o Qatar dove tre anni fa fallì miseramente un boicottaggio – organizzato ben da lontano – contro i mondiali di calcio; o tanti altri allegri posticini dove l’omosessualità è ancora punita con la pena di morte o il carcere a vita ma dove il salvacondotto dell’Unione Europea e l’immunità parlamentare li puoi usare come carta igienica, sarebbe stato ancora più coraggioso. Mi è venuto anche in mente, maliziosetto che sono, che chissà cosa avrebbero detto e fatto gli stessi capitoni coraggiosi se il matrimonio di Bezos fosse stato un matrimonio gay. Ma non stiamo a sottilizzare, dai, diamo un bel 7 di incoraggiamento.

pride budapest, elly schlein, brando benifei, carlo calenda

 

E mi voglio rovinare, pure su un’altra cosa voglio spezzare una piccolissima lancia, ovvero quel minestrone tra le bandiere arcobaleno (ogni anno sempre più istoriate da qualche nuova “realtà” infilata a forza e fino a diventare una sorta di caleidoscopio lisergico da crisi epilettica) e quelle della Palestina, paese non esattamente famoso, come dicevo poc’anzi, per la tolleranza verso i diritti LGBT. Comunque la si pensi su quell’indistricabile troiaio che è il Medio Oriente, e sul quale non ho nulla di intelligente da aggiungere, si può anche essere in conflitto con qualcuno su alcuni temi senza necessariamente volere il suo sterminio, si può benissimo manifestare solidarietà a chi è comunque ritenuto, a torto o ragione, vittima di un’ingiustizia. Vero è che le due cause sono evidentemente appiccicate con lo sputo. C’entrano l’una con l’altra come Concita De Gregorio c’entra con un’intellettuale. Quella dei palestinesi non ha una mazza in comune con il pride, e semmai sono i palestinesi che avrebbero più di una ragione per rifiutare l’accostamento, visto come i diritti LGBT vengono spesso usati come pretesto per il mito della “unica democrazia in Medio Oriente”, vista la presunzione messianica che accomuna sionisti e attivisti arcobalenati con analogo potere di scomunica (“antisemita” oppure “omofobo”) verso qualunque obiezione, persino con lo stesso cucuzzaro parolaio del “diritto ad esistere” e quindi a prevaricare (eufemismo) l’altro da sé.

Ma torniamo alla coraggiosa sfilata dell’orgoglio. Bandiere a parte, ci sono almeno tre parole chiave che ricicciano più delle altre: “bellezza”, “inclusione” e “amore”. Porca di una femminista, che disagio e che abuso sfacciato. Quanto alla “bellezza”, parliamo, se ci fate caso, di uno dei termini più violentemente inflazionati e pervertiti del loro significato dei tempi attuali: circondiamoci di bellezza, la bellezza ci salverà, la bellezza su, la bellezza giù, la rava e la fava. Vogliamo dare davvero, una buona volta, un significato reale alle parole, e non solo quando ci serve per usarle come jolly vittimista? No, perché io ho visto parecchie foto di pride in giro per l’Italia e non solo: barbe incolte, tatuaggi da deportati, abbigliamento che vabbè-che-ve-lo-dico-a-fare, facce che sembravano uscite da un film di Ciprì e Maresco (quelle maschili) o di Sergio Citti (quelle femminili), sorrisi tristissimi di circostanza, baci bavosi in favore di fotocamera, gente sudata come un kebab; se non riuscite a cogliere immediatamente la “bellezza” di questo spettacolo, siete in perfetta sintonia con il sottoscritto. Una visione più antiestetica del parco rottami di uno sfasciacarrozze e più mesta del ricordo della gente che cantava dai balconi durante la pandemia: con quale coraggio qualcuno, a parte “Repubblica”, potrebbe trovarci un solo grammo di “bellezza”? Veramente, come trovare questa specie di agglomerato di cattivo gusto esteticamente accettabile? Io mi chiedo: ma davvero vogliamo assomigliare a questa gente? Davvero vogliamo essere così? Non è bello ciò che è bello, figuriamoci ciò che è brutto.

elly schlein, alessandro zan, pride budapest

Poi c’è “inclusione”, che mi fa venire voglia di entrare in qualche squadrone della morte in Nicaragua. Io non sono e non voglio essere inclusivo. Non vedo proprio perché dovrei “includere” nella mia vita la bruttezza (vedi sopra), la stupidità, l’ignoranza, la malafede, l’incompetenza, il vittimismo, il vuoto cosmico, il privilegio, il ricatto. Ma chi è che vorrebbe mai convivere con delle paturnie simili? Se tu vuoi essere “incluso” da me, questo non comporta un qualche atto dovuto da parte mia, a parte quello dell’elementare buona educazione e del rispetto che si deve a chiunque. Dove e perché ti dovrei “includere”? Magari sei brutto (maschile sovraesteso) come il femminismo: e vabbè, magari sei simpatico. E invece no: sei un piombo, un piagnisteo vivente, un tormento, un dito sempre puntato. Magari sei intelligente: e invece no, sei l’antimateria, hai la stessa funzione della moglie di Springsteen che suona il tamburello. Ma che cazzo vuoi? In cambio della mia inclusione, della mia compassionevole gentilezza, cosa mi darai se non squallide recriminazioni e castrazioni linguistiche? Io al massimo posso prenderti a testate nella speranza di farti passare la scemenza, ma so già che mentre tento di soffocare l’impulso tu, invece di ringraziarmi per lo sforzo sovrumano, mi annoieresti elencandomi tutti quelli che portano la colpa della tua inettitudine: tutti, tranne te. No, non ti includo e vaffanculo. Meno inclusività e più bellezza: quella vera però.

E infine c’è l’aMMore, con tutti gli stucchevoli sdilinquimenti di gente che odia se stessa ma vuole insegnare l’amore a noialtri che ce ne stiamo tranquilli per i fatti nostri. Non importa chi scegli di amare (ma no, non mi dire), l’amore è amore eccetera. E magari un tonto che ripete queste banalità si sente molto intelligente perché ha letto una cosa che ha sempre saputo credendo che l’autore sia un cranio, pensa di che ultimo anello della catena alimentare stiamo parlando. L’amore è amore, sì, bravo: anche la rottura di coglioni è rottura di coglioni.



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