Eva Cantarella e l’ipocrisia sulle quote rosa

Eva Cantarella è ordinaria di Diritto romano e greco e scrittrice. In una recente intervista a Il Fatto Quotidiano ha detto la sua su quote rosa e dintorni. Parte bene Eva Cantarella, poi però sbraca. Comincia contestando le quote rosa non perché troppo poche o in troppi pochi settori, ma proprio come principio: «essere indispensabili per forza di legge è la negazione della forza e del potere della condizione femminile oggi in Italia». Giusto, come non condividere? Prosegue rilevando che le quote rosa «sono diventate, per paradosso, una minorazione delle capacità femminili». Anche questo è giusto, sono orgoglioso di lavorare con donne che si dimostrano vere eccellenze in più campi. Le corsie preferenziali vanno garantite a chi è fisicamente o psichicamente svantaggiato, una donna inquantodonna non è portatrice di disabilità.

Poi però la Cantarella cade nell’immancabile contrapposizione donne/maschi, autentica colonna portante della vulgata femminista: «siamo così forti che non abbiamo bisogno di tutor e magari pure maschi». Non donne/uomini e neppure femmine/maschi ma rigorosamente donne/maschi ove donna è un termine alto e nobile mentre maschio (o maskio, per alcune) è poco più di un insulto, una condizione della quale doversi vergognare. Non si tratta di una sottigliezza lessicale ma di una tara ideologica che toglie dignità al soggetto uomo. Il termine “maschio” riferito alla specie umana ha un’accezione dispregiativa in quanto identificativo del soggetto XY nelle specie animali: il maschio del cinghiale, del rinoceronte, della zebra. Prova ne sia che mai (non raramente, mai) le rivendicazioni del femminismo suprematista parlano di femmine pagate meno, femmine stuprate, femmine vittime di violenza domestica. Sono sempre donne, spesso anche Donne con l’iniziale maiuscola. Io stesso ho scritto di essere orgoglioso di lavorare con donne capacissime, non con femmine.

Eva Cantarella
Eva Cantarella

Infine Cantarella conclude: «l’esatta parità aritmetica tra l’uomo e la donna non è altro che un fenomeno soprattutto mediatico, con fiumi d’inchiostro a commentare ogni temuta discriminazione mentre la forza dell’identità femminile è tale che all’uomo non resta, per affermare il proprio potere, che ricorrere a quella biologica. Con la sua forza fisica intende regolare i conti». Appunto, ecco che il maschio perde la dignità umana per scadere in quella animale. Un bruto inquantomaschio che deve affermare il proprio potere e, di fronte alla chiara superiorità che nasce dalla forza dell’identità femminile, mena. Usa la forza fisica per regolare i conti. L’istinto animale che lo domina inquantomaschio gli impone di aggredire. Non è chiaro quali siano i conti da regolare, ma l’importante è lasciar passare il messaggio che il maschio-orco sia alla perenne ricerca di vendetta sul femminile. Sapendo di essere inferiore intellettualmente e spiritualmente, libera la bestia che è in sé e sfodera i muscoli. Stereotipi sessisti antimaschili, ne abbiamo?

Si badi però che non è un comunicato di “Non Una Di Meno”, che ci starebbe pure visto il livello, ma una discriminazione sessista proveniente da una plurititolata docente universitaria. Il sessismo della discriminazione di genere è politically correct, quando il genere discriminato è quello maschile. Anche contro alcune clamorose evidenze. Si ha tutti presente la lagna per cui “alle-donne-non-era-permesso-di-entrare-in-magistratura-fino-agli-anni-’50”, vero? Una lagna che lascia pensare a una congiura maschile per impedire alle donne di accedere a talune professioni, e che dimentica, caso strano, che agli uomini è stata interdetta la professione infermieristica fino alla legge 124 del 1971. Certo tra magistrato e infermiere c’è una bella differenza, si dirà. Sì, dicono le femministe: una differenza di potere. Che è l’interesse primario delle femministe: non la parità, ma l’acquisizione di posizioni di potere. E stando alla situazione ad esempio di gran parte dei tribunali d’Italia si direbbe che l’obiettivo è stato raggiunto. Guardate questo elenco dei giudici onorari con funzioni al Tribunale di Milano e fate il conto uomini/donne. È lungo, lo sappiamo, ve lo facciamo noi: su 87 magistrati, 9 (nove!) soltanto sono di sesso maschile. Il 10%. Fate la stessa ricerca su altri tribunali e l’esito non sarà diverso. Ha proprio ragione la Cantarella: la parità aritmetica tra uomo e donne non è che un fenomeno mediatico. Ma non fine a se stesso, aggiungeremmo noi, bensì strumentale a denunciare una discriminazione che palesemente non esiste e ottenere così preponderanti posizioni di potere. Altro che “parità”.
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